top — 28 Febbraio 2012 at 15:46

Come se niente fosse – Marco Revelli

EDITORIALE da Il Manifesto – di Marco Revelli

La verità su quanto sta accadendo in Val di Susa, e sul suo significato generale, sta tutta in una quarantina di ore. Nel breve spazio che va dal sabato pomeriggio al lunedì mattina. Sabato, una valle intera – un popolo – molte decine di migliaia di persone, anziani, giovani, donne, bambini, contadini, operai, piccoli imprenditori, commercianti, “popolazione”, riempiono le strade, i campi circostanti, le rotatorie e i borghi, per dire no al Tav. Pacificamente, con volti sorridenti e idee chiare in testa. Lunedì mattina – come se niente fosse – una colonna di uomini armati marcia, secondo programma, sull’area-simbolo di Clarea, sui terreni di proprietà comune risparmiati dal primo blitz del 27 giugno 2011 e diventati il simbolo della resistenza, per occuparli. Indifferenti a tutto, muovono per spianare la Baita che ha ospitato in questi mesi l’anima della valle, come se con le ruspe potessero cancellare le ragioni di tutti. In mezzo, un uomo che cade da un traliccio, folgorato, e solo per miracolo non perde la vita.

Non servono molti discorsi per cogliere l’intreccio di arroganza, di stupidità, di sordità burocratica e di sostanziale disinteresse per i fondamenti della democrazia che muove un potere insensibile a qualunque argomentazione razionale e a ogni criterio di prudenza. Persino a ogni calcolo di costi e benefici. Incapace di leggere i numeri (anche se composto da fior di professori di economia) come di ascoltare le voci dei territori (anche se sensibilissimo ai sussurri dei mercati globali). Chiuso in un’assolutistica fedeltà ai soli interessi dei forti e ai progetti (insensati) degli apparati tecnocratici, a tal punto da non soprassedere neppure una settimana, neppure un giorno, nell’esecuzione di una decisione con tutta evidenza improvvida.

Ho sempre cercato di resistere alla seduzione delle teorie “catastrofiche” che annunciano l’ “azzeramento della democrazia” di fronte all’onnipotenza delle tecnocrazie trans-nazionali e all’impersonalità dei mercati. Mi sembravano una diagnosi paralizzante. E tuttavia è difficile non cogliere l’evidenza empirica della forbice sempre più larga – un abisso – che si va creando tra le pratiche autoreferenziali e burocraticamente formali delle istituzioni nazionali e continentali (di quella che con drammatica ironia si chiama “politica”) e le domande sempre più esasperate di partecipazione (o anche solo di ascolto) che salgono dai territori. Tra la “democrazia dell’indifferenza” che domina in alto, e la “democrazia della partecipazione” che abita in basso.

Non si tratta solo della pressione repressiva, che d’altra parte in Val di Susa si è fatta soffocante, ai limiti della tollerabilità costituzionale e anche oltre. Si tratta di una cosa più complessa che riguarda il delicato rapporto tra rappresentanti e rappresentati, giunto davvero – per lo meno sul piano nazionale – al punto di rottura, forse irreversibile. Si tratta di quell’organo essenziale in ogni democrazia (e che manca in ogni dittatura) che è l’udito: la capacità di ascoltare le voci della società, dei suoi diversi “pezzi”, e di dar loro il giusto peso, come condizione per mantenere “coeso” un Paese, ed evitare l’esodo delle sue parti vitali.

In assenza di quel canale uditivo, un Paese si “slega”. Se ignorata troppo a lungo nelle sue ragioni vitali, una popolazione esce dal patto civile che determina il grado e la forma della legittimazione. L’immagine della Grecia è esemplare: un popolo, una nazione, una società condannata alla morte civile in nome di dogmi fideistici coltivati e celebrati nel cuore istituzionale d’Europa, sulla base di ricette rivelatesi mortali agli occhi di tutti, tranne che a quelli dei decisori istituzionali. Come esemplare è l’immagine di quei poliziotti-scalatori che alla baita di Clarea, armati di corde scalano, implacabili, il traliccio indifferenti al rischio e alle parole di Luca Abbà, finché la tragedia non si compie.

Se non riempiremo quell’abisso di senso e di silenzio, se non sapremo riportare a terra il luogo della decisione sul destino dei beni di tutti ora evaporata nell’alto dei cieli finanziari e tecnocratici – ricominciando in primo luogo ad “ascoltare” – quelle di Atene e di Chiomonte non saranno le sole tragedie a cui assisteremo.