post — 10 Maggio 2012 at 18:43

Diogene ha trovato l’uomo Dedicato alla Valsusa

[Questo racconto è dedicato alla Valsusa che resiste]

di LP

L’impresario, che venerava il danaro, sosteneva che l’opera pubblica e il progresso erano indissolubilmente legati e che neanche la morte li avrebbe separati. Per l’impresario l’opera pubblica e il progresso erano in piena osmosi. L’impresario affermava che l’opera pubblica era necessaria perché così voleva il progresso e che per progredire bisognava fare un’opera pubblica. L’impresario sosteneva che senza il progresso e l’opera pubblica l’uomo sarebbe ritornato ad essere un selvaggio, quandanche buono.

L’impresario, che si riteneva più abile di quello che effettivamente era, voleva civilizzare l’uomo e con lui le montagne. Voleva convincere l’uomo che le montagne non dovevano rimanere lì, immobili, ma, al contrario, dovevano produrre, bisognava costringere una volta per tutte il paesaggio a fruttare. L’impresario, per il quale la catena di montaggio era pura depravazione, sosteneva la sua idea intrisa di alterigia e sicumera, indossando un maglione a girocollo e dei chilogrammi di troppo. L’impresario non aveva nessuna idea, neanche lontana, di cosa potesse significare “interesse pubblico”. Per lui l’interesse generale non esisteva, o meglio l’interesse generale si confondeva con l’interesse particolare, il suo.

Se è vero che la moneta è un giudice incorruttibile perché parziale, condanna “chi non ce l’ha”, allora l’impresario poteva essere considerato un tizio incorruttibile, era il nostro tizio incorruttibile. Il danaro si era impossessato definitivamente dell’anima sua. Pertanto, ciò che caratterizzava l’impresario non era tanto la durezza di cuore ma la sua mancanza. Tutto lo scibile umano era violentato davanti alla figura ignobile dell’impresario. C’era una tale assenza di bene in lui che ricordava la vicenda del parroco nella sua sagrestia impegnato a mangiare cibo animale mentre gli altri non ce l’hanno. E non ci sarebbe niente di male per alcuni se uno possiede e l’altro no. Sennonché il parroco prima di mettersi a tavola, aveva, dal suo pulpito, convinto il suo pubblico, i fedeli, che la felicità, seppure invisibile ai più, non è affatto una pubblicità ingannevole e che prima di pensare a nutrire lo stomaco è necessario nutrire l’anima: “pazientate, fratelli, perché le vie del Signore saranno infinitamente piene di arrosto per tutti”, aveva dichiarato.

La nota più spregevole di questa storia è che il parroco, prima di afferrare con avidità la coscia di pollo, aveva appena finito di spergiurare eldoradi ai suoi fedeli. Gli aveva fatto credere che solo loro possedevano l’esclusiva della felicità, bastava fare un solo e unico passo per raggiungerla, uno solo; un solo dannato passo. Soltanto che tra il fedele e quel passo, c’era una vetrata trasparente che si frapponeva, e tutto questo a insaputa di chi doveva compiere quel passo. E successe che mentre il parroco era chiuso nella sua sagrestia, il fedele, tutto preso dalle sue fisime di eternità, prese la rincorsa per fare quell’unico passo che lo divideva dalla felicità. Il fedele corse con tutte le sue forze verso la felicità e così si fece male alla parte più sporgente del suo viso: il naso. Il fedele non poteva vederla quella vetrata così lucida, in quanto era accecato dalla fede, che è brama di felicità. Solo perché si vergognava come un cane non andò a chiedere spiegazioni al parroco dell’esistenza di quella vetrata.

Tornando a noi, vi è una differenza sostanziale tra il parroco e il nostro impresario che si può vedere ad occhio nudo: l’impresario non ha più un pubblico. Non c’è nessun fedele ad accogliere i suoi sermoni; nessun pulpito da dove comunicarli, nessun feticcio da inseguire.

Qui, sotto questa montagna che si vuole sventrare senza nessun rispetto del dio raziocinio, nessuno ha sete di felicità invisibile e di pernottamenti eterni. Qui la felicità non sarà, è. Vi è una squisita particella verbale che non si cela, si vede benissimo. La felicità è quella montagna che l’uomo non guasterà ma che difenderà. L’uomo esiste e la felicità ha un nome, si chiama VALSUSA.

I dischi li mette Arturo Dominic Bandini, ora e sempre.

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