Di Elena Sonnini

Il 18 maggio ho incontrato Nicoletta Dosio a Bussoleno, in Val di Susa. Nicoletta è un’attivista e volto storico del Movimento No Tav. Per il suo impegno in questa lotta è stata condannata, insieme a Dana Lauriola, a un anno di reclusione (Dana a due anni) per i reati di: violenza privata, violenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, blocco stradale, concorso morale. Tali reati sarebbero stati commessi durante un episodio avvenuto nel 2012 durante un’azione dimostrativa pacifica sull’autostrada Torino-Bardonecchia. Gli/le attivisti/e avevano bloccato con il nastro adesivo l’accesso ad alcuni tornelli del casello, facendo passare le auto senza pagare. Sugli aspetti giuridici e processuali rimando al testo di Xenia Chiaramonte, “Governare il conflitto. La criminalizzazione del Movimento No Tav” (Meltemi 2019).

Nicoletta Dosio ha 76 anni; all’epoca della carcerazione ne aveva 73. Ha passato 3 mesi nell’istituto di pena Lorusso-Cutugno di Torino, da gennaio a marzo 2020. È stata rilasciata prima della fine della condanna per motivi legati alla pandemia da Covid-19.

L’obiettivo dell’intervista è riflettere sulla sua esperienza di detenzione, e non sulla sua vita da militante e sul movimento No Tav in generale. In continuità con l’intervista rivolta a Susanna Ronconi, ho cercato di ricostruire le caratteristiche e le peculiarità del carcere femminile – invisibilizzato da una trattazione che si concentra sulla detenzione maschile considerata universale – attraverso la lente della detenzione politica e lo sguardo di chi il carcere l’ha vissuto.

Le parole di Nicoletta raccontano le storie delle sue compagne di detenzione e delle relazioni che si sono instaurate tra di loro e con le agenti, del carcere durante l’emergenza Covid, del carcere che non abbandona mai, neanche quando si torna a casa. L’intervistata ci accompagna nella quotidianità della detenzione, volutamente resa inconoscibile per chi vive nel mondo libero.

Le interviste seguono un percorso volto alla conoscenza del carcere femminile, iniziato con un inquadramento storico e sociologico della punizione e della reclusione delle donne, e proseguito con un’analisi sulla contemporaneità, sul carcere di oggi.

«Il primo aspetto da sollevare sulla sua esperienza di detenzione politica è, a mio avviso, il fatto che è stata scelta.»

Se avessi voluto chiedere le misure alternative, mi sarebbero state concesse, sicuramente. Io ho scelto di andare in carcere per una questione di opposizione al carcere stesso. Non perché volevo subire, ma perché volevo che fosse chiaro come la pena che mi era toccata non era diversa da quella che era toccata a tanti altri prima e che ha continuato a colpire tanti altri dopo. Ed era una pena per un’azione giusta. Visto che io sono convinta che contro il potere ingiusto la resistenza sia un diritto e un dovere, allora volevo rivendicare questo fatto. Non volevo chiedere nulla perché non riconoscevo quel sistema che ha messo in carcere me e non solo me. Per cui sono andata. Nessuno pensava che sarebbe successo, ormai avevo 73 anni.

«Può raccontarmi l’impatto che ha avuto su di lei l’ingresso in carcere?»

Non mi aspettavo niente di buono. Non avevo paura, però la rabbia c’è stata subito, fin dall’ingresso perché, dopo la foto, ti senti espropriata della tua personalità, diventi uno strumento. Non mi hanno trattata male, almeno all’inizio. Entri in un mondo in cui devi fare delle cose senza capirne il senso e quindi ti senti trasformata in un oggetto che può essere preso, manipolato, fotografato, messo lì. La perquisizione è la parte più umiliante perché ti fanno spogliare e faceva freddo. Quando ho detto “ho freddo” mi hanno risposto che avevo solo da muovermi. Poi c’è il passaggio dal “lei” al “tu”, che non può essere però rivolto a loro. Il “tu” non è un elemento di amicizia, ma di minorazione. Ti avverte subito che sei una subordinata, che non sei niente, mentre loro hanno tutto il potere nelle loro mani.

«Mi può descrivere l’esperienza della perquisizione?»

Ti senti violata e questa sensazione l’ho avuta sempre perché dopo i colloqui la perquisizione c’è sempre. Ti mettono in una stanza insieme alle altre e ti fanno spogliare. Ti vedi con la tua povera carne di persona anziana, lì esposta, non solo al freddo, ma proprio all’umiliazione di doverti tirare giù le mutande, di doverti tirare su la maglia. Il fatto che ti trattano come un oggetto. Poi ti espropriano dei beni personali. Per esempio, non mi hanno lasciato portare dentro il cappotto dicendo che era troppo lungo. Quando ho chiesto il perché mi hanno risposto “perché lo sappiamo noi”. Ci sono delle regole in carcere che non ho mai capito, un’arbitrarietà totale.

«Com’è stata la prima notte?»

Mi hanno portata ai Nuovi Giunti. In carcere non sono mai riuscita a dormire per davvero perché si passa da un silenzio pesante di notte a un rumore continuo di giorno. Le televisioni sono accese a tutte le ore del giorno e diventa una vera e propria tortura. Dai Nuovi Giunti la cosa più pesante è che, a differenza della sezione libera, sei dentro 20 ore su 24 chiusa in cella.

Inoltre, la sezione dei Nuovi Giunti è usata anche per internare le persone che hanno problemi mentali. Ci sono tanti malati in carcere, non solo tossicodipendenti ma malati di diverso tipo. Fin dalla seconda notte ho iniziato a sentire questo gemito, si sentiva forte e ho visto una cella con il blindo chiuso. Ho sbirciato dallo spioncino e ho visto questa creatura in cella, nuda completamente. E faceva freddo, molto, era inizio gennaio. Dentro c’era solo un materasso per terra senza lenzuola, senza coperte. Allora chiedo e mi dicono: “a questa non possiamo neanche lasciare un paio di mutandine ché si impicca”.

Quando ho chiesto alla mia compagna di cella, mi ha raccontato che questa donna aveva delle crisi nervose e durante una di queste crisi, una secondina, che veniva chiamata Hitler, anche da alcune sue colleghe, era andata a fermarla. Le aveva messo un ginocchio addosso, l’aveva presa per il collo e la donna ha allungato le braccia e l’ha graffiata. Quindi non era lì solo perché aveva crisi nervose, che poi comunque non dovrebbero essere curate così, ma era lì come punizione. Io passavo tutte le volte e la chiamavo. Alla fine hanno aperto il blindo, lei metteva fuori la mano e io gliela tenevo. Era l’unico modo per poter comunicare con lei. La cura in carcere è la repressione, il controllo attraverso la paura. Non dimenticherò mai quel lamento nella notte.

«Chi sono le donne in carcere secondo la sua esperienza?»

In carcere, a parte tre donne che avevano commesso reati di tipo amministrativo, ho incontrato le povere di questo mondo. Sai, c’hanno insegnato lo sdegno contro la gente che ruba il pane, ma io ho imparato che è un delitto non rubare quando si ha fame. Quanta gente era lì per quello. Un giorno, in biblioteca, ho fatto sentire ad altre detenute la canzone “Nella mia ora di libertà” di De Andrè. Loro sono rimaste stupite perché la canzone racconta qualcosa che loro capivano, in cui si riconoscevano. Il carcere, l’istituzione del carcere, non vuole che le persone detenute sappiano che c’è dell’ingiustizia nella loro reclusione, perché se no ciò che viene imputato loro a colpa diventa un modo per difendersi.

Poi c’è l’aspetto della multiculturalità. Ci sono molte donne sinte e molte donne immigrate, nigeriane soprattutto. Loro mi chiamavano zia o mama perché ero la più anziana. Le donne nigeriane hanno storie simili, partono per l’Europa in cerca di un lavoro, ma non è mai così semplice. Una di loro per vivere ha iniziato a fare la corriera di cocaina. Ingurgitava gli ovuli e viveva con il rischio quotidiano di morire perché  se ti si spaccano dentro sei finita. Tante di loro non hanno nessuno che le vada a trovare, sono sole. Le ragazze provenienti dal Marocco sono poche, una di loro mi ha raccontato la sua storia. Ha fatto da palo per il compagno e dei suoi amici durante un furto. Loro sono scappati, lei l’hanno presa. Era incinta, per un po’ è stata all’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), poi ha perso il bambino.

Sono tante anche sono le donne tossicodipendenti che vengono “curate” con il farmaco. La mia concellina prendeva il metadone da 9 anni! Infatti sono tutte senza denti, anche ragazze giovanissime, un po’ perché la tossicodipendenza fa perdere i denti, un po’ perché non te li aggiustano, se ti va bene puoi permetterti di comprare una dentiera. Sottolineo un aspetto che viene spesso dimenticato…il carcere non è gratuito, costa 108,6 euro al mese anche se non mangi niente, se non c’è l’acqua calda, se il bagno non è un bagno ma uno stanzino, e se vivi in una cella di 2x4m senza un frigo. D’estate come frigo si usa il bidet. Infatti tante donne soffrono di mal di pancia perché mangiano cibi andati a male. Se vuoi farti lavare gli indumenti, devi pagare. Senza contare l’abuso di plastica che viene fatto in carcere. Ogni giorno ti danno i piatti, i bicchieri, le posate di plastica usa e getta e l’acqua in bottigliette di plastica, che chiaramente pagano i detenuti, per cui si crea un quantitativo enorme di rifiuti.

«Prima ha detto che le donne più giovani la chiamavano zia o mama. Un aspetto che avevo notato anche io è che le donne in carcere tentano di riprodurre una struttura famigliare, o comunque un ambiente intimo, casalingo.»

Sì, la detenuta più anziana si occupa delle più giovani e le più giovani si occupano delle più anziane. C’è un codice all’ interno che è quello della solidarietà, fatta di preoccupazione per l’altra. Le anziane sono rispettate come se vigessero ancora dei codici atavici che il mondo fuori non conosce più. Un’altra caratteristica che ho notato nella sezione aperta è che le donne sfaccendano come in casa. Al mattino appena sveglie rifanno i letti, puliscono per terra, sistemano. Qualcuna si mette persino il grembiulino come se fosse in casa. Io non cucinavo, in carcere ho perso l’appetito, mentre altre preparavano da mangiare e a volte mi portavano qualcosa da assaggiare. C’era un senso della cura, anche delle celle. Tu pensa in un posto come quello, dove sono proibiti le piante e i fiori, le donne costruivano i fiori di carta. Cercavano di trasformare la cella in una piccola casa, mettendo le tendine alle finestre. E non era solo il senso della sudditanza della donna alla casa, c’era qualcosa di più. Il tentativo di personalizzare, di portare del mondo fuori dentro il carcere. L’altra cosa di cui mi sono meravigliata è che, quando andavano a colloquio, le donne si preparavano con cura, facevano il caffè, lo mettevano nelle bottigliette e portavano delle merendine da offrire ai parenti che venivano a trovarle. Al contrario quindi! Si riproduce il mondo fuori come modo per evadere e per mantenere integra la propria dignità. Quindi è vero che c’è questa volontà di riprodurre il senso di famiglia che c’è fuori.

«Ronconi e Zuffa (Ediesse, 2020) registrano, da parte dello staff carcerario e dalle agenti in particolare, una percezione delle donne detenute di bambine capricciose e invidiose. I modelli sono sempre quelli, dell’infantilizzazione e della deresponsabilizzazione. Inoltre si ripropone quel longevo mito sessista delle donne che non sono in grado di essere amiche tra loro perché troppo invidiose e competitive. Il litigio diventa un bisticcio per motivi futili, a differenza del litigio maschile, considerato un vero e proprio conflitto.»

Io dentro non ho mai visto una cosa del genere. Da quello che ho potuto vedere c’è molto senso di solidarietà, la capacità di stare insieme e l’aiuto reciproco. A volte anche un senso di allegria. C’era chi passeggiava, chi andava a trovare le altre, chi veniva a prendere il caffè, chi aveva bisogno di confidarsi. Si creava un senso di quotidianità buona, che non era quella delle guardie, loro si tenevano fuori. La vita andava avanti, al di là della costrizione del carcere. Questo senso di solidarietà non era strumentale, un’ostentazione di generosità, ma un bisogno per sopravvivere. Ho constatato che la solidarietà tra di noi fosse malvista. Se attiri la benevolenza delle altre è visto come un modo per primeggiare, per creare un gruppo che dipende da te, e che poi loro (le agenti) non riescono più a gestire. Per le guardie è importante avere il ruolo di mediatrici del conflitto, di risolvere le situazioni e di essere considerate in questo modo. Io cercavo di fare in modo di non coinvolgerle; lo vedevo come un atto politico e di resistenza a quei meccanismi che sono strutturanti della carcerazione. L’intenzione è quella di dividerti, vorrebbero il 41 bis dappertutto perché ti isola, anche solo psicologicamente. E allo stesso tempo vorrebbero essere (le agenti) le tue confidenti, così da poterti soggiogare.

«Com’è stato socializzarsi al mondo carcerario? Entrare in quel processo di prigionizzazione, di apprendimento delle regole, formali e informali, estranee al mondo libero?»

Strano perché è un altro mondo. Le agenti si comportano come se svolgessero un lavoro d’ufficio, con la differenza che, a seconda della giornata, qualcuna le regole le usava in un modo e un’altra in un altro. Non ti danno un libretto delle regole, per cui le regole le impari dalle altre. Mi ricordo il primo giorno che ero lì e sono passati a dare le medicine. Mi danno la pastiglia, la prendo, vado verso il tavolo per versarmi un bicchiere d’acqua e iniziano ad urlarmi: “Dove vai???”. Anche la mia concellina mi dice, preoccupata: “Ma non sai? Tu devi presentarti lì davanti con il bicchiere perché la pastiglia la devi prendere davanti a loro”. Io non lo sapevo. Successivamente ho capito l’importanza del farmaco che è fondamentale per tenerti tranquilla. Ti danno tutto quello che vuoi pur di tenerti tranquilla. Impari dalle altre cos’è lecito e cosa non lo è. Ma a volte neanche il lecito e l’illecito sono più la stessa cosa perché a seconda di come gli gira tutto cambia. Inoltre, devi abituarti, o meglio convivere, con i modi delle agenti, con quella reificazione totale che compiono su di te, sulle donne detenute. Ti trattano come un pezzo della catena di montaggio e sono loro che ti fanno le denunce, e tu non puoi saperlo, lo scopri dopo. È quasi come se avessero la divisa anche al cervello. Per fare quel lavoro devi convincerti che le persone che hai di fronte se lo meritano, che ci sia della malvagità. Devi convincerti che non hai di fronte delle persone, ma delle cose che devono essere rieducate. Senza contare poi quanto sono sboccate, ti danno della puttana in un tono che vuole sembrare amichevole, ma non lo è, e poi se la ridono tra loro. Le donne nere le chiamano “Africa”, le donne indiane “India”, come se non avessero un nome.

«Trovo interessante che quando lei parla di questa esperienza di detenzione si soffermi poco su di sé, sul suo vissuto più personale e intimo, mentre sembra adotti uno sguardo analitico, quasi esterno; come se fosse entrata in carcere per studiare il carcere.»

In parte è vero. Volevo sapere com’era e volevo, più inconsciamente, attrezzarmi per combatterlo. Non puoi impedirti di vedere e di pensare, e quello che vedevo e pensavo, lo scrivevo. Rispetto a questo, le altre detenute all’inizio avevano qualche difficoltà a capire perché io, che potevo avere i domiciliari o addirittura l’affidamento in prova, fossi lì. Non è stato chiaro subito. Quando mi hanno arrestata, più volte la notizia è passata in televisione e alcune mi guardavano male come se fossi un alieno in quella situazione. In carcere però ho imparato che non bisogna imporsi alle altre e soprattutto non fare prediche. Ci sono cose che io avrei fatto diversamente, ma non puoi permetterti di dirlo. Credo che questo aspetto faccia parte della detenzione politica. Io ero lì, ero una di loro, e non ho avuto difficoltà ad identificarmi con loro. Ma sei anche altro, la tua storia è diversa. Tuttavia, esiste il lato umano, empatico che consente di immergersi nelle relazioni, in quei rapporti semplici che si creano. Quando una donna esce, finisce la detenzione, le altre battono le sbarre, ti salutano. È una specie di rito di sorellanza. Sono uscita con un gran senso di colpa perché quello che ti porti fuori non è gioia, ma malinconia e sofferenza nell’aver lasciato le altre lì dentro. Non sei veramente libera finché qualcuno è lì. Il fatto che stavo uscendo l’ho vissuto come un’ingiustizia. Quel non luogo e quel non tempo continuano ad esistere nonostante tutto. Il carcere ti resta dentro, non esci mai completamente. Perché là qualcuno è rimasto.

«L’esperienza della carcerazione è stata come si aspettava?»

Il carcere che non mi aspettavo è stato il carcere con il Covid. La televisione sempre accesa che ci vomitava addosso le notizie della malattia. Vedevi i camion di bare che facevano impressione a chi era fuori, figurati a noi dentro che avevamo la sensazione di non poter correre, né scappare. Inoltre, io ero anziana e vedevo che chi moriva di più erano le persone della mia età. Mi sentivo senza ripari rispetto alla malattia. Non potevo avere il conforto delle persone fuori perché hanno interrotto le visite. Non facevano neanche più spedire i pacchi. Il paradosso vuole che nessuno aveva la mascherina, neanche le guardie, che infatti a un certo punto hanno fatto uno sciopero per questo. Il direttore le aveva vietate (le mascherine) alle agenti perché spaventavano i detenuti.

Noi non abbiamo mai saputo i dati reali. Io a volte chiedevo al medico, qualcosa ci diceva ma solitamente non ci davano notizie, quindi appena sentivi una che cominciava a tossire la gente si spaventava. Senza contare il terrore di non sapere come stavano le persone care fuori. Ero preoccupata per mio marito che non sta bene quindi a volte la paura di ricevere brutte notizie mi assaliva. C’hanno dato una sola telefonata in più alla settimana, quindi due in tutto. Ti rendevi conto che lì dentro non c’erano strumenti di prevenzione di nessun genere. Passavano la pompa col disinfettante nei corridoi, neanche nelle celle. E il disinfettante, come la Conegrina, non potevi usarla, usavamo il Cif. Avevi l’impressione di essere a braccia alzate senza ripari. Questa chiusura, il fatto che se prima mangiavi male poi mangiavi anche peggio perché non ti portavano più nulla da fuori, non potevi avere i cambi di biancheria quindi dovevi spendere di più, perché spesso la roba sporca la mollavi ai parenti. Quindi chi non aveva soldi stava peggio e poteva sopravvivere solo perché cercavamo di aiutarci reciprocamente.

«Secondo lei perché è così difficile scardinare l’equazione pena=carcere? Perché il pensiero abolizionista continua ad essere confinato a uno stato di radicalità sovversiva nonostante si strutturi su argomentazioni e analisi giuridiche ed epistemologiche fondate e logiche?»

È la stessa questione dei manicomi, non è stato facile abolirli perché comunque il pregiudizio era grande. Il potere utilizza questi luoghi per creare nemici; è un modo per dare vita e mantenere la guerra tra poveri. Si nascondono i veri interessi politici ed economici di un’ élite. Allora piuttosto che puntare sulla giustizia sociale, che sarebbe la vera alternativa al carcere e renderebbe la società più inclusiva e responsabile, si preferisce continuare a trovare il capro espiatorio nel deviante, nel povero, nell’individuo che si ribella al sistema, nel malato mentale, tra chi è diverso.

«E improduttivo.»

Esatto. Il carcere è l’armadio in cui il potere, lo stato, il mercato, il capitale nascondono i propri scheletri. Viviamo in un mondo pieno di solitudine dove uno può morire solo e nessuno se ne accorge. Loro ti creano il posto dove mandare chi si ribella, chi è povero e la sua povertà tu non la vuoi risolvere perché la vedi funzionale alla tua ricchezza; è l’altra faccia della tua ricchezza. Tutto è competizione, quindi se uno è povero e non ce l’ha fatta la colpa è sua e di conseguenza è uno da eliminare; è uno che, non solo non produce, ma è la zavorra da liberare in mare. C’è una bellissima poesia di Sante (Notarnicola) che racconta questo. Sante il carcere l’ha vissuto, per più di trent’anni. Era un militante, un compagno e a un certo punto inizia a far parte di un gruppo di rapinatori, la Banda Cavallero, che rubava nelle banche per finanziare le iniziative politiche. In carcere si è politicizzato ancora di più. Ha portato avanti molte lotte per migliorare le condizioni di reclusione. E in carcere ha scoperto la poesia.

Sante è morto pochi mesi prima del mio incontro con Nicoletta, a marzo 2021.

Per concludere l’intervista, durata più di tre ore, mi legge una delle sue poesie,

Tribunale del popolo”:

Cancelliere: “Compagni silenzio entra la corte!”

Presidente: “Introducete l’imputato”

Cancelliere: “Questo tribunale è costituito

dai compagni

Bruni, meccanico

Gianni, taxista

Rossi, contadino

Paoli, studente

Neri, pensionato

presiede il compagno

Bori, tramviere”

Accusatore: “L’imputato ha confessato,

propongo sia interrogato”

Presidente: “Compagno imputato,

perché hai commesso

questo reato?

Vuoi dirci in cosa

abbiamo sbagliato?”

Volterra, 13 febbraio 1971