post — 7 Novembre 2016 at 00:20

Intervista a Francesca militante no tav

da storieinmovimento.org

8-marzo-2014Non riuscivo ad accettare l’idea che Francesca fosse finita in carcere. Capivo il fatto, solo che non mi piaceva. Non perché avessimo un legame speciale, non eravamo nemmeno amiche. Ho immaginato il film, vari possibili film, degli eventi. Una giovane donna, un ideale, più ideali, la lotta, lo scontro, l’arresto. E diversi scenari, soprattutto una città e una valle, e fiumi di persone che si affacciavano sulla storia e vi sostavano più o meno a lungo, più o meno arrabbiate. Quel fatto del carcere non mi andava giù, e nemmeno mi piaceva ridurre lei all’arresto e ai giorni del carcere.  Allora le ho chiesto di raccontarmi di sé e del movimento, le ho fatto delle domande che avrebbero potuto essere altre ma che sono queste. Lei ha raccontato di impegno politico, di stare insieme, di lotte e anche un po’ di sé.
Raccogliere le voci dai movimenti fa parte dell’attività di chi studia e discute di conflitti sociali. Queste domande e risposte non hanno la pretesa di chiarire la natura del No Tav, né di fornire una lettura politica del fenomeno. Possono invece offrire un punto di osservazione su una esperienza di mobilitazione e di attivismo politico nell’Italia contemporanea. La redazione multimediale di Storie in Movimento ha accolto l’invito a pensarci insieme pubblicando l’intervista a Francesca; la sua voce può essere una fonte e uno stimolo per riflettere su alcuni punti della storia e della storiografia, come le forme della contestazione, la periodizzazione dei conflitti, i confini geografici e temporali delle lotte, la percezione della militanza.

Nina Baleia

Che cosa è per te il movimento No Tav?

Una battaglia per il futuro, un pezzo fondamentale della mia esperienza nei movimenti sociali, una “palestra” di lotta e apprendimento ma anche uno spazio di incontro, socialità e condivisione.

Come hai iniziato a partecipare alla lotta No Tav? Pensi ci siano anime differenti nel movimento?

Mi sono avvicinata per la prima volta al movimento No Tav nell’estate del 2009. Ero al liceo e arrivavo da un anno segnato dalla mobilitazione studentesca contro la riforma Gelmini, per me prima esperienza attiva all’interno di un movimento. Anche per questo, sollecitata da alcuni amici del collettivo della mia scuola, decisi di partecipare all’annuale campeggio estivo No Tav a Venaus, vedendola come un’occasione per conoscere meglio una realtà di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare ma sulla quale non avevo un’idea precisa rispetto alle ragioni della lotta. Dopo questo primo contatto, nei mesi successivi ebbi occasione di partecipare ad altri momenti di mobilitazione (era il periodo dell’opposizione ai sondaggi e alle trivellazioni nei vari paesi della Valle di Susa interessati dal progetto Tav), arrivando poi a prendere attivamente parte al movimento.

Nello stesso periodo, sia tramite il movimento studentesco sia per la lotta No Tav, iniziai ad avvicinarmi al centro sociale Askatasuna, di cui faccio tuttora parte. Nel tempo la mia partecipazione alla lotta No Tav è quindi diventata un pezzo della mia militanza con il centro sociale, che è sempre stato una componente attiva del movimento valsusino fin dalle prime fasi. Nel No Tav ci sono diverse anime e livelli di impegno e partecipazione e credo che uno dei punti di forza di questa lotta sia proprio la capacità che ha finora avuto (… non senza difficoltà!) di coinvolgerle e tenerle assieme.

Che tipo di movimento è per te? Che peso hanno – per te e nel movimento – altre istanze come l’antifascismo, l’antimachismo, l’anticapitalismo?

Uno degli aspetti che mi ha colpita di più nei miei primi contatti col movimento è stato proprio il fatto che fosse anche uno spazio in cui “si sta bene”. Infatti per me la prima esperienza è stato il campeggio No Tav, una dimensione immediatamente sociale. Credo che tra i motivi della longevità di questo movimento ci sia anche questo, la capacità di tenere assieme la lotta e lo stare insieme, spesso anche all’interno di una stessa iniziativa: penso appunto ai campeggi ma non solo, anche ai più recenti aperitivi o alle cene No Tav che vengono organizzati nei pressi del cantiere di Chiomonte. Come tutti i movimenti anche questo implica dei costi (in termini di energie, di tempo… anche di conseguenze legali) che però tendono a diventare più sfumati in questo contesto di collettività e condivisione. Per molte persone il movimento è stato anche un’occasione per (ri)tessere legami sociali, per incontrarsi e discutere e anche mettersi in discussione.

Si è creato uno spazio in cui l’opposizione al progetto Tav, e quindi a un certo modello di sviluppo e di utilizzo del territorio, ha significato anche sperimentare e immaginare un modello di relazioni sociali e tempi di vita differenti, che si costruiscono proprio nel contesto di lotta. Questo si è visto soprattutto nelle fasi più alte della mobilitazione, nella mia esperienza sicuramente nel periodo della Libera Repubblica della Maddalena (così erano stati ribattezzati i terreni su cui nell’estate del 2011 per più di un mese si era insediato un presidio e su cui oggi sorge il cantiere per il tunnel geognostico), ma non solo. Non so se si possa parlare a tutti gli effetti di uno spazio liberato ma sicuramente c’è una tensione verso la costruzione di un modo di stare assieme differente. Istanze come l’antifascismo e l’antisessismo sono parte fondamentale del mio percorso di militanza (in generale) ma se ne discute anche all’interno del movimento.

Si usa il termine compagni/compagne nel movimento? Ti sembra che ci sia un rapporto tra la vostra lotta e le lotte del passato?

L’uso del termine compagni/e nella mia esperienza è tendenzialmente circoscritto all’ambito del centro sociale, mentre nel contesto della lotta No Tav mi sento di dire che è meno in uso. Di solito ci si definisce semplicemente No Tav, una definizione inclusiva in cui tutti possano riconoscersi e capace di tenere assieme l’eterogeneità di persone ed esperienze che popolano il movimento.

Un riferimento ricorrente al passato è quello della Resistenza partigiana: la Valle di Susa ha una storia importante legata alla lotta contro il nazifascismo e la memoria e l’eredità di quell’esperienza sono state spesso riprese e fatte rivivere all’interno del movimento contro l’alta velocità. In questo senso i No Tav hanno spesso promosso e organizzato commemorazioni legate alla Resistenza, ma è soprattutto sul livello dell’immaginario che è stato creato un filo rosso tra la lotta partigiana e quella attuale. “Partigiani della terra” è un’espressione con cui spesso il movimento si è definito, così come le forze dell’ordine che presidiano il cantiere di Chiomonte e il territorio valsusino sono state ribattezzate “truppe d’occupazione” . Si è così creato nell’immaginario collettivo del movimento un continuum di resistenza del territorio valsusino dal passato a oggi.

Questo richiamo ritorna soprattutto nella manifestazione annuale che il movimento organizza in occasione dell’8 dicembre per celebrare la “liberazione di Venaus” avvenuta nel 2005, quando i No Tav hanno riconquistato i terreni che nel progetto iniziale (poi modificato) erano destinati alla costruzione del tunnel geognostico, bloccando l’avvio dei lavori. Questa data coincide con quella in cui, nel ’43, i partigiani valsusini fecero il “giuramento della Garda”, che segna formalmente l’inizio della Resistenza in Valsusa. Durante le manifestazioni dell’8 dicembre il movimento No Tav ha sempre ricordato entrambi gli avvenimenti, alimentando così la connessione tra la lotta al nazifascismo e le forme di resistenza attuali.

Chi è il tuo nemico in questa lotta?

Credo che il movimento No Tav abbia più di un nemico e che a seconda delle fasi alcuni siano stati più visibili, altri meno, senza contare che alcuni si sono aggiunti successivamente. Ci sono diversi livelli di scontro. Quello principale è sicuramente attorno al progetto Tav, che quindi contrappone la Valsusa allo Stato centrale, ai vari ministri e governi che negli anni hanno sostenuto con più o meno enfasi la necessità di quest’opera. Ma il movimento ha potuto contare in diversi momenti anche sull’appoggio di sindaci e amministratori locali e si è quindi aperto uno scontro tra territorio valsusino e Stato centrale, che spesso ha creato fratture anche all’interno di uno stesso partito politico.

Negli ultimi anni, poi, la militarizzazione del territorio – soprattutto attorno al cantiere di Chiomonte – è diventata sempre più visibile e imponente, non solo in occasione di manifestazioni ma anche nella quotidianità. Dopo i fatti del dicembre 2005 i No Tav si sono trovati molte volte a fare i conti con l’azione della polizia, in alcuni casi anche molto violenta, o a subire abusi o divieti arbitrari sul territorio della valle: da questo punto di vista credo che il sentire generale sia che le forze dell’ordine rientrino tra i nemici del movimento. Inoltre, a partire dagli arresti avvenuti in tutta Italia nel gennaio 2012 per le giornate di resistenza contro lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena (estate 2011), anche l’azione giudiziaria contro il movimento è aumentata a dismisura. I dati diffusi nel 2014 dalla Procura di Torino parlavano, ad esempio, di 1000 indagati in 4 anni di proteste contro l’alta velocità! Anche questo ha indubbiamente aperto un nuovo fronte – e quindi nuovi nemici – con il quale il movimento ha dovuto necessariamente confrontarsi.

Questi credo siano i nemici principali e condivisi di questa lotta, probabilmente ce ne sono altri ma in generale non penso esistano delle istanze personali che si differenziano da quelle collettive; credo piuttosto che ognuno abbia potuto trovare spazi, modalità e aspetti differenti con cui legarsi e partecipare al movimento e che l’eterogeneità dei nemici che ho citato rifletta la molteplicità di istanze e questioni a cui il No Tav ha saputo negli anni dare voce partendo dall’opposizione all’alta velocità e allargandosi man mano a una critica molto più ampia.

Hai sentito in certi momenti che avevate vinto?

La prima grande vittoria del movimento è stata senza dubbio la liberazione di Venaus nel dicembre del 2005. Personalmente non ero presente in quell’occasione ma credo che quell’evento abbia fatto da spartiacque nella storia della lotta No Tav e che abbia rappresentato qualcosa di decisamente inedito nella storia dei movimenti italiani degli ultimi anni: una piccola valle era riuscita a tenere testa e addirittura a bloccare l’avvio di un progetto che coinvolge interessi e poteri molto più vasti e potenti. La ripresa dei terreni di Venaus ha rappresentato per la prima volta la possibilità concreta di una vittoria, con conseguenze importanti sugli sviluppi successivi del movimento.

In generale credo che, almeno negli ultimi anni, non vi sia mai stata una percezione netta di sconfitta, per quanto il livello dello scontro si sia notevolmente inasprito, aprendo una fase di maggiori difficoltà per il movimento. Avanzamenti della controparte in alcuni frangenti vengono piuttosto considerati sconfitte parziali e temporanee che finora, a mio avviso, non hanno messo in discussione la possibilità di un esito vittorioso del movimento in questa battaglia.

A questo proposito mi viene in mente la giornata del 27 giugno 2011, la data dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena. Ero presente in quell’occasione, da giorni si sapeva che l’intervento della polizia per sgomberare il presidio e prendere possesso dei terreni era ormai imminente. Il dispiego di forze dell’ordine che ci siamo trovati di fronte era impressionante (più di 2500 agenti coinvolti), fu un vero e proprio intervento militare in cui la sproporzione di forze in campo era evidente. Tuttavia lo sgombero ha richiesto ore e i terreni sono stati espropriati solo dopo ore di resistenza opposta dai No Tav in più punti dell’area. A fine giornata eravamo tutti esausti, eppure non ricordo sconforto. Ricordo che nelle ore successive ebbi occasione di discutere con un amico No Tav che si trovava all’estero di quanto era accaduto e di com’era andato lo sgombero e mi resi conto che non riuscivo a parlare di quella giornata nei termini di una sconfitta, anche se alla fine la polizia era riuscita a prendere possesso dei terreni. Credo che questa concezione sfumata di vittoria e di sconfitta sia comune ad altri episodi della lotta No Tav, soprattutto in una fase in cui il movimento si trova ormai da qualche anno a confrontarsi con una controparte sempre più attrezzata, che ha portato lo scontro su un terreno sempre più militare e “muscolare”.

Cosa ti ha tolto e cosa ti ha dato stare nel No Tav?

Certamente è stata e continua a essere un’esperienza di crescita importante dal punto di vista della mia militanza ma anche uno spazio in cui tessere relazioni e fare nuove conoscenze non solo sul piano politico ma anche su quello umano e sociale.

Rispetto a quel che mi ha “tolto”, sicuramente come per ogni movimento è una partecipazione che richiede e prende tempo ed energie, a cui nella mia esperienza personale si sono aggiunte per alcuni mesi una serie di limitazioni temporanee della libertà. Anche su questo aspetto, però, negli ultimi anni il movimento ha sviluppato forme di solidarietà e supporto attivo di fronte ai provvedimenti repressivi che colpiscono i No Tav, così che questo tipo di conseguenze della partecipazione alle mobilitazioni non venga vissuto in maniera isolata o individuale ma potendo contare su una rete di sostegno collettiva. È stata ad esempio creata una cassa in cui vengono raccolti fondi per le spese processuali, cosa che si aggiunge alle manifestazioni di solidarietà che vengono organizzate in occasione di operazioni giudiziarie e arresti.

Se dovessi ricorrere a un’immagine per spiegare questi tuoi anni, quale useresti?

Ricordi belli ne ho molti, sicuramente un’immagine importante è quella che associo al periodo della Libera Repubblica della Maddalena, che certo non è stato l’unico momento significativo o spartiacque nella storia del movimento ma nella mia esperienza è stato il primo nel quale ero presente e a cui partecipato. Un ricordo negativo quello del mio arresto avvenuto a inizio settembre 2015 assieme ad altri 7 No Tav.

Come funziona la solidarietà interna al movimento?

C’è sicuramente un piano materiale fondamentale che riguarda l’aspetto repressivo nella sua totalità, dal sostegno economico per le spese processuali a quello per eventuali sanzioni pecuniarie inflitte ai No Tav. Soprattutto negli ultimi anni si è infatti assistito a una sorta di “monetizzazione” degli strumenti repressivi, con l’utilizzo sempre più frequente di condanne pecuniarie per risarcire i danni economici prodotti da azioni di blocco o da altre iniziative contro il Tav. A questo proposito una prova di solidarietà che ricordo come particolarmente forte ed eclatante è stata quella che si è tenuta nell’inverno del 2014, quando una sentenza del Tribunale di Torino condannò tre No Tav a risarcire Ltf (la società italo-francese cui è affidata la realizzazione dell’opera) di 215.000 euro per un blocco dei sondaggi avvenuto nel gennaio 2010. Il movimento lanciò un appello alla solidarietà e in breve iniziarono ad arrivare donazioni da tutta Italia e non solo: nel giro di un mese la cifra necessaria era stata non solo raggiunta ma superata.In generale, comunque, il movimento organizza periodicamente iniziative di autofinanziamento (concerti, cene, feste…) per raccogliere fondi con cui far fronte a esigenze di questo tipo. Sempre per quel che riguarda gli aspetti processuali esiste inoltre un pool di avvocati No Tav, che non solo difendono e seguono gli attivisti nelle aule di Tribunale, ma che nel tempo hanno anche più volte organizzato dibattiti e momenti pubblici per discutere e mostrare l’eccezionalità giuridica che si è venuta a creare attorno ai processi che riguardano l’opposizione all’opera.

Esiste poi un piano meno materiale ma altrettanto fondamentale che riguarda la solidarietà in senso ampio, intesa come sostegno a quanti vengono colpiti da operazioni giudiziarie e al movimento nella sua totalità, soprattutto nei momenti in cui questo si è trovato più esplicitamente sotto attacco.

In occasione di arresti o dell’imposizione di altre misure cautelari nei confronti dei No Tav vengono organizzati presidi e concerti sotto il carcere oppure sotto le abitazioni di chi si trova agli arresti domiciliari, più volte si è scelto di accompagnare in gruppo fino alla caserma le persone sottoposte a obbligo di firma e così via.

È un modo per non lasciare soli quanti vengono di volta in volta colpiti da misure restrittive ma anche e soprattutto per rivendicare una responsabilità collettiva sulle azioni contestate, spezzando la retorica dei buoni e cattivi con cui spesso le operazioni repressive sono state presentate dalla controparte che, cauta nell’attaccare direttamente le ragioni del movimento nel suo complesso, ha tentato di insistere su singoli episodi di lotta e responsabilità individuali, cercando di slegarli dal contesto collettivo in cui nascono. Su questo credo si sia costruito un passaggio di maturazione molto importante e per nulla scontato del movimento No Tav, che forse non sarebbe stato possibile qualche anno fa: è una solidarietà frutto del consenso che questo ha saputo nel tempo costruire, all’esterno ma in primo luogo al suo interno, attorno alle sue ragioni e alle sue pratiche di lotta.

Due vicende mi sembrano esemplificative a questo proposito: nel gennaio del 2012 una grossa operazione portò a più di 20 arresti di No Tav in tutta Italia. Le accuse riguardavano la partecipazione alle giornate di resistenza contro lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena durante l’estate precedente. Ai tentativi della magistratura di presentare l’operazione come volta a colpire solo una piccola parte della vastissima partecipazione di quelle giornate (una parte descritta come violenta ed estranea al territorio e alle ragioni del No Tav), il movimento reagì compatto coniando lo slogan «siamo tutti black bloc», da lì in poi più volte utilizzato in risposta a episodi giudiziari di questo tipo.

L’altra vicenda che mi viene in mente è la solidarietà che si è espressa attorno ai No Tav accusati di terrorismo per il sabotaggio avvenuto tra il 13 e il 14 maggio 2013 al cantiere di Chiomonte, durante il quale bruciò un compressore. L’accusa di terrorismo è stata poi più volte smentita anche in sede giudiziaria ma nel frattempo si era creato attorno al loro caso un sostegno molto vasto e per certi versi inaspettato, considerata l’imputazione pesantissima e inedita che gravava su di loro. Si è trattato di una solidarietà ampia, che ha superato gli ambiti di movimento fino a far esporre pubblicamente anche scrittori, musicisti e personaggi dello spettacolo e che senza dubbio è stata possibile grazie al modo in cui il movimento No Tav ha saputo raccontarsi e spiegarsi all’esterno.

Guardi alla storia del secondo dopoguerra in Italia come un periodo più denso di “battaglie per il futuro” rispetto ad oggi?

Credo sia difficile fare un confronto per la profonda diversità di contesto in cui le battaglie di ieri e di oggi sono nate. Indubbiamente oggi in Italia ci troviamo di fronte uno scenario molto meno denso di mobilitazioni rispetto alla stagione dei movimenti del secondo dopo guerra; una serie di forme organizzative si sono esaurite o sono cambiate e ci si trova ad agire in contesti molto più frammentati. In questo senso credo che l’esperienza più che ventennale del movimento No Tav rappresenti ancor di più una positiva anomalia all’interno del panorama italiano attuale.

Nella mia esperienza di questi ultimi anni mi sono più volte confrontata, in situazioni diverse, con la difficoltà di nuove lotte ad emergere e ampliarsi e spesso con un senso diffuso di sfiducia o disillusione verso la possibilità di un’azione collettiva. Tuttavia delle battaglie e delle resistenze ci sono anche oggi, anche se spesso si manifestano in forme inedite o meno organizzate rispetto ai movimenti del passato.