post — 4 Giugno 2025 at 10:58

Capitalismo delle infrastrutture e politica delle rovine

Di Vando Borghi, da Le parole e le cose (dalla rubrica “Ecologia della trasformazione” a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti).

È un abbaglio frequente quello di vedere rivoluzioni o fratture epocali ad ogni passaggio trasformativo delle condizioni di integrazione tra economia e società. Il “basso continuo” dello spartito sul quale suona il capitalismo contemporaneo costituisce un registro musicale piuttosto costante, da qualche secolo a questa parte. Tuttavia è importante cogliere anche il modo in cui queste continuità si combinano con fattori di discontinuità, che incidono e modificano le nostre forme di vita. Il capitalismo delle infrastrutture è il modo in cui si caratterizza questa combinazione di continuità e discontinuità nel nostro presente.

“Con capitalismo delle infrastrutture – scrivono Kevin Lin e Pun Ngai – ci riferiamo a una forma di capitalismo che si basa sulla produzione e sull’espansione di infrastrutture fisiche e digitali intersecate tra loro”. E proseguono sottolineando come in questa specifica fase del capitalismo sia in gioco “la base materiale di tutte le altre forme di materialità del capitalismo, vale a dire il capitalismo estrattivo, il capitalismo monopolistico e il capitalismo digitale o delle piattaforme”. In effetti non è soltanto questione della “material base of all other forms of materiality of capitalism”, per riprendere i termini dell’efficace definizione di Lin e Ngai. Il capitalismo delle infrastrutture, infatti, ha che fare con una ridefinizione più complessiva: l’esperienza che facciamo del rapporto con il mondo e con gli altri esseri viventi dipende in modo sempre più rilevante e capillare dalle infrastrutture su cui sono incardinate le forme di vita contemporanee. E ancora, non si tratta solo del rapporto tra sistema economico e organizzazione sociale. Per afferrarne pienamente l’estensione e l’intensione occorre assumere una concezione ampia del capitalismo, secondo la quale esso non è riducibile unicamente ad un sistema economico. Il capitalismo, in tale prospettiva, è piuttosto un ordine sociale istituzionalizzato, cioè una forma di vita sociale nel suo insieme stabilizzata in un assetto istituzionale dato, attraverso il quale è organizzato lo scambio metabolico che consente alla società di sussistere e riprodursi. Il capitalismo delle infrastrutture emerge dunque alla confluenza di processi che investono questo ampio spettro di dimensioni.

Quello che è andato delineandosi è uno scenario in cui la “burocratizzazione neoliberale del mondo” ha operato una profonda trasformazione del rapporto tra controllo delle infrastrutture (anche quelle pubbliche) e potere, producendo una inedita compenetrazione tra strutture statali e di mercato, ciò che Keller Easterling definisce “extrastatecraft”, in cui si assiste alla crescente ibridazione tra pubblico e privato (e al dominio del secondo sul primo). Questa ristrutturazione della dimensione istituzionale del capitalismo contemporaneo si è saldata con l’emergere di una “società iperindustriale” il cui codice fondativo è la connettività, vale a dire il fatto che “che tutti i compiti, tutti gli attori, tutti i processi possono ormai essere connessi tra loro, a molteplici scale geografiche, creando passaggi di masse enormi di dati che sono la materia prima delle nuove catene del valore”. Naturalmente le retoriche, celebrative o apocalittiche che siano, che enfatizzano esclusivamente la dimensione digitale di questa discontinuità, a sua volta rappresentata come straordinaria occasione di dematerializzazione e disintermediazione, non ci devono distrarre. In realtà è proprio sul piano della socio-materialità e quindi dell’ibridazione tra materiale e immateriale che va collocata la discontinuità di cui dicevo. Come anche gli osservatori del mondo economico hanno appreso a definirle, le infrastrutture del capitalismo contemporaneo sono phygital, sono cioè ecosistemi fisici, digitali e relazionali che incorporano e riproducono uno specifico ordine sociale istituzionalizzato.

Il perno della trasformazione in corso sono dunque le infrastrutture. Una letteratura oramai molto ampia mostra che il termine infrastruttura va usato in una accezione che comprende e, allo stesso tempo, trascende la dimensione fisica (strade, città, ferrovie ad alta velocità, reti elettriche o idrauliche e così via) cui siamo normalmente portati ad associarlo. Già nella sua stessa origine etimologica, l’infrastruttura implica sia i sistemi sociotecnici nella loro dimensione materiale, organizzativa, amministrativa; sia i processi attraverso cui quei sistemi sono istituiti ed entrano in relazione con altri, creano reti e connessioni.  La prospettiva delle infrastrutture, dunque, è aperta a campi di ricerca e chiavi interpretative assai ampie. Per riprendere ancora una volta la definizione di Brian Larkin, onnipresente nei lavori che indagano le infrastrutture, queste ultime sono caratterizzate da una specifica ambivalenza. Esse sono cose, dunque oggetti indagabili nella loro materialità (e relativa caducità, aspetto assai importante); ma sono allo stesso tempo relazioni tra quelle cose, incorporando logiche funzionali e modelli di relazione di cui il capitalismo contemporaneo si avvale per intraprendere una sempre più capillare sincronizzazione tra infrastrutture delle cose e infrastrutture dell’esperienza. Anche concentrando l’attenzione soltanto sui processi produttivi, risulta chiaro che questa peculiarità ontologica delle infrastrutture è alla base di un modello frictionless della connessione tra piattaforme, lavoro, stili di vita, timescapes, modelli di consumo, logiche dell’attenzione, logistica, orizzonti dell’esperienza e dell’immaginario dei soggetti. Un immaginario di connettività che aggiorna le sue caratteristiche storiche secondo quello che è lo “smartness mandate” del capitalismo contemporaneo. Senza entrare nel dettaglio del processo di crescente ibridazione tra infrastrutture e piattaforme, cioè del processo che è stato definito di simultanea “piattaformizzazione delle infrastrutture” e “infrastrutturazione delle piattaforme”, ciò che è importante sottolineare è che il modello di business dei giganti del capitalismo delle infrastrutture non si limita a connettere attori sociali ed economici, luoghi, oggetti e pratiche: tali sistemi socio-tecnici infatti “orientano il modo in cui si connettono tra loro” (altro che disintermediazione). Per quanto digitalizzazione e intelligenza artificiale giochino un ruolo chiave in queste trasformazioni, nessun determinismo tecnologico consente di dare efficacemente conto di un passaggio che esige piuttosto una lettura braudeliana del rapporto tra dinamiche sociali, economiche, politiche e culturali. Una trasformazione che compenetra in profondità la stessa organizzazione del lavoro, allorché il capitalismo delle infrastrutture “sincronizza tecniche discorsive, simboliche e sensoriali nelle sue pratiche commerciali, occupazionali e di formazione aziendale” per accrescere la sua presa trasversalmente al confine tra lavoro e forme di vita. In altre parole, il capitalismo contemporaneo è infrastrutturale perché tutte le sfere della vita sociale sono sempre più profondamente influenzate da processi e logiche infrastrutturali.

Tuttavia, è importante non farsi abbagliare dallo schermo retroilluminato del capitalismo infrastrutturale. Le infrastrutture costituiscono una promessa di futuro, facendo quindi (anche) dell’orizzonte temporale un campo di battaglia e un territorio da colonizzare, nel quale il possibile – un possibile aperto, potenzialmente trasformativo – viene addomesticato e ricondotto alle logiche che dominano il nostro presente. Tuttavia, come in un nastro di Moebius, quelle promesse contengono paradossalmente anche le proprie rovine. La riflessione critica su questi processi si configura dunque come la messa in discussione di un paradigma in cui le rovine tra le quali già ora viviamo sono consustanziali ad una (rinnovata) promessa di sviluppo che prende le forme del capitalismo delle infrastrutture. Il riconoscimento della valenza politica della critica delle rovine, in altre parole, esige la critica della promessa delle infrastrutture. Si tratta di elaborare una critica in grado di tracciare i nessi tra rovine di diversa natura e di rendere evidente il modo in cui esse sono parte integrante della promessa delle infrastrutture. Rovine del sociale, in primo luogo, come esito di una drammatica intensificazione delle disuguaglianze, della frequente sostituzione del filantropismo al welfare, della precarizzazione del lavoro e dell’estensione delle condizioni di lavoro forzato, della moltiplicazione delle “morti per disperazione” e della più complessiva erosione delle basi stesse del legame sociale; rovine che hanno indotto a parlare di ri-feudalizzazione come esito paradossale delle modernizzazione capitalistica contemporanea, rintracciabile anche nelle involuzioni del rapporto tra diritto e processi di mercato (tema peraltro al centro di un interessante dibattito). Rovine ecologiche, allorché l’abitabilità del Pianeta, cioè le condizioni che consentono la riproduzione degli esseri viventi su di esso, è messa sempre più a rischio dal modo in cui il Globo, in quanto progetto umano centrato sul dominio del Pianeta (cioè il sistema terrestre come sistema fisico naturale), distrugge irrimediabilmente porzioni sempre più ampie della biosfera, facendo già ora di noi dei sopravvissuti tra le rovine del capitalismo. E ancora, miseria simbolica, l’insieme di rovine prodotte dal crescente spossessamento della conoscenza, già iniziata a suo tempo con la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro, estesasi poi anche all’attività di consumo all’epoca della profilazione capillare e dell’orientamento stringente alle scelte che le infrastrutture contemporanee sono in grado di produrre e, infine, dilatata alle nostre forme di vita tout court, sia perché sempre più interamente assorbite nella coppia lavoro-consumo, sia perché – come già sottolineato – questa fase del capitalismo si fonda sulla connettività just-in-time delle infrastrutture delle cose con le infrastrutture dell’esperienza.

La lettura politica delle rovine deve allora avviare un cantiere del pensiero (ruins thinking) che consenta di rimettere in gioco quella speranza progettuale su cui Tomàs Maldonado aveva a suo tempo insistito, quando i primi sintomi di queste rovine costringevano già a riesaminare criticamente il senso dell’idea stessa di progetto. Si tratta di esplorare il modo in cui, anche aprendo situazioni di conflitto sociale, si danno comunque concezioni differenti di ciò che è possibile fare, e di  come le nostre infrastrutture debbano essere profondamente ripensate, affrontando i “negative commons” ereditati da promesse di futuro già rivelatesi rovinose, facendo emergere la ricchezza di pratiche e indicazioni fondate su una politica della manutenzione in quanto attività ordinaria e diffusa di cura delle relazioni, dei territori e degli ecosistemi. Centrale, a questo proposito, è la dimensione della conoscenza, in quanto terreno a partire dal quale le rovine del capitalismo delle infrastrutture rischiano di neutralizzare le basi stesse di una tale lettura critica. Il filosofo Bernard Stiegler ne aveva a suo tempo fatto il terreno progettuale su cui legare il problema globale all’iniziativa territoriale locale. La sua morte prematura ha interrotto quel percorso, della cui ampia convergenza che aveva ottenuto rimangono tracce in rete. Ma il tema di immaginare infrastrutture che sottraggano la produzione della conoscenza a pochi global players, in ragione della estrema rilevanza pubblica di tale attività, continua non solo a rimanere urgente ma presenta numerosi elementi di fattibilità.