News — 7 Luglio 2011 at 15:44

Val di Susa. Settantamila buone ragioni.

È accaduto quello che temevamo e che molti volevano, come dimostrano le strumentalizzazioni del giorno dopo. La stampa, tutta la grande stampa, non ha dubbi e amplifica le veline della Questura, del partito trasversale del cemento e della società costruttrice della linea ad alta velocità (che ancora nel gennaio dell’anno scorso – non sappiamo se anche oggi – provvedeva, su richiesta del prefetto di Torino, «all’alloggiamento delle forze dell’ordine preposte al mantenimento dell’ordine pubblico»).

Pochi si interrogano sulla dinamica degli scontri della Maddalena e, in particolare, se le pietre contro la polizia abbiano preceduto o seguito i lacrimogeni sparati contro i dimostranti che tentavano il preannunciato “assedio del cantiere”. Tutti, o quasi, danno per scontato che il lancio dei sassi sia stato il frutto di un piano programmato di gruppi di estremisti. Nessuno, o quasi, si interroga su quando e su come tutto sia iniziato, che peso abbia avuto la reazione di parti del movimento No Tav ancora segnato dalla violenza dello sgombero di una settimana prima, quanti feriti ci siano tra i dimostranti (si parla di centinaia, anche gravi, che certo non si sono rivolti agli ospedali di zona). La ragione è semplice. Sbattere il mostro in prima pagina serve a far passare in secondo piano le 70.000 persone (7.000 secondo la Questura) che hanno occupato domenica la Val Susa.
La violenza (quella di Stato e quella che ad essa si oppone) va, nella mia cultura, contrastata. Ma ciò non giustifica l’accettazione di versioni di comodo, preconfezionate e dirette a occultare il senso di una giornata che ha visto in Val Susa un movimento forte e consapevole, venuto per dire che non si fermerà e che sarà, alla fine, vincente. Come è stato per l’acqua pubblica e per le energie alternative, contrastate e irrise solo un anno fa da molti che in ultimo, per convinzione sopravvenuta o per calcolo, hanno cambiato idea.
La manifestazione di domenica è stata una tappa importante, da cui occorre ripartire smascherando le strumentalizzazione e il cinismo di chi ha cercato la prova di forza.
Gli scontri, i feriti, l’incrinarsi di ogni possibilità di dialogo tra poteri e cittadini dovevano e potevano essere evitati. Lo abbiamo chiesto in molti, una settimana fa, con un appello alle istituzioni e alla politica: fermatevi!
Non abbiamo chiesto la luna ma, semplicemente, di ridare la parola alla politica, di evitare la trasformazione di una questione complessa e controversa in un problema di ordine pubblico, di arrestare la spirale che ha portato all’epilogo (provvisorio) della Maddalena.
Stracciarsi oggi le vesti e deprecare (giustamente) le manifestazioni di violenza è una inutile ipocrisia quando non si è fatto nulla per evitarle e, anzi, si è soffiato sul fuoco sollecitando finanche l’intervento dell’esercito. La vicenda della costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione non sarà risolta con logiche militari: questo insegna la manifestazione di domenica. Alle obiezioni e ai ragionamenti non si può rispondere con i manganelli (anche perché da sempre, nella storia, la violenza chiama violenza: non è una giustificazione ma un fatto). L’opposizione di una valle non si annienta con la forza né con i prevedibili seguiti repressivi delle prossime settimane. Un cantiere non può lavorare per anni impegnando, in funzione di controllo, centinaia di agenti di polizia o di altre forze dell’ordine.
Una strada diversa è possibile: aprire al più presto un grande confronto nazionale, pubblico e trasparente, tra tutte le parti in causa e i loro tecnici ed esperti su utilità, rischi, costi, alternative dell’opera. Riesaminare senza preconcetti decisioni assunte venti anni fa (come stanno facendo, in questi giorni, altri a cominciare dal Portogallo) è segno non di debolezza ma di intelligenza politica. Non farlo – continuando con gli slogan e con le prove di forza – provocherà nuovi scontri e nuove ferite, sempre più difficili da rimarginare. Se le cose andranno in questo modo non basterà indicare come responsabili di tutto alcune centinaia di black block venuti da chissà dove (e magari inventati).

Di Livio Pepino da Il Manifesto del 06/07/2011.