post — 4 Luglio 2018 at 22:38

La gestione “singolare” della Procura dell’Operazione Hunter

L’operazione Hunter, con cui il movimento No Tav denunciò minuziosamente il pestaggio di due manifestanti, arrestati dalle forze dell’ordine nella giornata del 3 luglio, ha avuto risvolti particolari in tutti questi anni, fino a farci affermare che si tratti di un vero e proprio insabbiamento a fronte di numerose prove, diverse istanze di riapertura del caso e a comportamenti “discutibili” da parte degli agenti individuati.

Parte di questa vicenda e ben documentata nel docu/film“Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Val di Susa”. Il regista Carlo Amblino ha intervistato l’avvocato Claudio Novaro che ha portato avanti in tutti questi anni una battaglia giudiziaria che ha visto porte sbattute, procedimenti disciplinari e tante, tante archiviazioni.

Pubblichiamo qui di seguito l’intervista

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Domanda: Dalla cosiddetta “operazione Hunter”, vale a dire dalla denuncia pubblica che il movimento No Tav fece del pestaggio di due manifestanti, arrestati dopo la manifestazione del 3 luglio 2011, molta acqua è passata sotto i ponti. Il video “Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Val di Susa” ha ricostruito fedelmente l’esito del processo, che si è chiuso con l’archiviazione della querela presentata contro gli abusi commessi quel giorno dalle forze dell’ordine. Tu hai anche rilasciato oltre 4 anni fa un’intervista che spiegava quanto stava accadendo in sede giudiziaria (Operazione Hunter la procura chiede l’archiviazione (intervista all’Avv. Novaro). Ci sono stati però degli sviluppi recenti. Avresti voglia di raccontarceli?

Risposta: Dico subito che quell’intervista è stata fatta dopo la richiesta di archiviazione del P.M. e prima della decisione del giudice. Poi, come testimoniato anche dal video, la richiesta è stata accolta sia per il reato di lesioni che per quello di omessa denuncia.

Tutto ciò nonostante la documentazione video-fotografica, prodotta dalla difesa, che riprendeva esattamente quanto accaduto.

Esattamente. Esisteva anche un video integrale dell’accaduto, girato da un operatore della Rai. Ma quando chiedemmo alla RAI le immagini ci venne risposto che il filmato era stato perso. Questo è un paese molto distratto, in cui a volte scompaiono importanti reperti utili alle indagini. E’ accaduto a Genova con le bottiglie molotov portate dalla Polizia dentro la scuola Diaz, più modestamente, è accaduto anche con il nostro filmato.

La tua intervista iniziava raccontando come, tra gli operatori delle forze dell’ordine che quel giorno picchiarono i due manifestanti arrestati, venne individuato un solo soggetto, un carabiniere del Corpo dei Cacciatori di Sardegna. Che cosa è successo poi?

Il carabiniere in questione aveva tatuato sull’avambraccio una frase tratta dalla seconda lettera di San Paolo a Timoteo (“ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”), per tale ragione venne identificato e poi rinviato a giudizio. Il processo a suo carico si è concluso con l’estinzione del reato.

Come mai?

Il carabiniere ha fatto istanza di “messa alla prova”, un istituto di recente introduzione nel nostro ordinamento, che consente di sospendere il processo, di ammettere l’imputato alla prestazione di un lavoro di pubblica utilità, fino ad arrivare all’estinzione del reato se la messa alla prova ha avuto un esito positivo.

In questo caso cosa è successo?

E’ successo che l’imputato ha offerto un risarcimento del danno (che è uno dei presupposti richiesti per poter richiedere la messa alla prova) di ben 700 euro. Di fronte al nostro sdegnato rifiuto ha alzato l’offerta a 1500 euro, somma che, nonostante le mie proteste, il giudice ha ritenuto equa.

Perché secondo te non lo era?

Beh, un pestaggio prolungato realizzato nei confronti di un arrestato integra quantomeno quello che la Convenzione dei diritti dell’uomo e la Corte europea di Strasburgo definiscono un trattamento inumano e degradante, che in genere comporta risarcimenti di ben altro livello.

Torniamo al processo al carabiniere.

Alla fine del periodo di messa alla prova (nonostante un lieve “incidente di percorso”, allorché si è scoperto che l’imputato aveva riportato in precedenza una denuncia per il reato di minaccia ad un sottoposto con la pistola d’ordinanza) il giudice ha dichiarato estinto il reato.

Dunque pietra tombale su tutto la vicenda?

Non esattamente. Poco più di un anno fa ho provato a richiedere la riapertura delle indagini chiuse con l’archiviazione. Ho presentato una corposa memoria, con molti allegati, tratti dal filmato e dalle fotografie che erano stati acquisiti agli atti (e che sono stati integralmente prodotti anche nel corso del cosiddetto Maxi processo No Tav, a carico di 53 imputati per i fatti del 3 luglio 2011).

Cosa volevi dimostrare?

Volevo dimostrare, sulla base delle immagini, che non era possibile sostenere, come aveva fatto il Gip, che nessuno tra gli appartenenti alle forze dell’ordine si fosse accorto di nulla e che non si potesse intervenire per fermare il pestaggio. In secondo luogo, mi sono accorto che era possibile individuare tra i presenti un poliziotto che, a sua volta, colpiva con lo sfollagente il manifestante. Si trattava di un fatto nuovo su cui chiedevo alla Procura di riaprire il procedimento.

Ci riassumi meglio il tuo punto di vista?

Proverei a farlo attraverso la memoria che ho presentato alla Procura.

Nel video di un operatore della polizia scientifica

(12.45.45), che abbiamo opportunamente rallentato, si vede uno dei due manifestanti circondato da agenti di Polizia, che sembrano avere nei suoi confronti un atteggiamento non proprio benevolo (si vede un agente che tiene alzato accanto a lui un manganello). Successivamente, nel giro di una manciata di secondi, alle 12.45.59, si vede l’arrestato trascinato da due agenti.

Neanche un secondo dopo (alle 12.46), in brevissima sequenza, si può apprezzare un primo poliziotto che lo colpisce con lo sfollagente e, poi, un secondo poliziotto che lo percuote, prima, con un una manganellata e, poi, con un calcio: negli stessi istanti (12.46.01) si vede chiaramente come uno dei due operatori che lo stanno trascinando, si giri verso chi sta compiendo tali azioni.

Nei passaggi successivi, prima dell’arrivo nel piazzale dell’area archeologica, numerosi agenti si avvicinano ad uno dei due manifestanti, sempre condotto a forza da due operatori di Polizia,

qualcuno lo colpisce (in particolare, del tutto evidenti sono i colpi che lo stesso riceve ai secondi 40, 42, 45 e 47 ), che si possono vedere anche meglio

nella stessa scena al rallentatore.

Fino alla definitiva conclusione dell’episodio, i due operatori delle forze dell’ordine che lo hanno in consegna, come attestano tutti fotogrammi, restano sempre accanto a lui. Mi sembra difficile sostenere che non si siano accorti di quanto accadeva e per tale ragione non siano intervenuti. Più nel dettaglio, in alcune fotografie:

 

si vede chiaramente come i loro sguardi siano rivolti al pestaggio in corso. Oltretutto, la loro distanza dal carabiniere che percuote il manifestante è di poco più di un metro.

Vi è di più. Intervenire per fermare i picchiatori era possibile, come dimostrano le immagini del filmato che riprendono un soggetto diverso,

un capitano dei Carabinieri, che effettivamente cercò di allontanare dal luogo degli eventi, spintonandoli, due operatori del suo reparto (lo si vede ai secondi 28 e 32) che avevano utilizzato dei bastoni contro il manifestante. La cosa stravagante è che, sentito in sede di indagini, il capitano dirà di aver spintonato i suoi due uomini non perché avevano colpito con dei nodosi bastoni l’arrestato, ma perché la presenza dei bastoni poteva essere “strumentalizzata”, visto che erano presenti alcuni operatori dell’informazione. Si tratta di una versione che non merita commenti. In ogni caso, anche lui è stato ritenuto credibile.

Il dato di maggior novità della mia memoria era però costituito dalla condotta attribuita ad uno dei poliziotti, che era stato prima indagato e poi archiviato per l’omessa denuncia dell’accaduto.

La sua posizione è facilmente identificabile attraverso le fotografie scattate dal fotografo de La Stampa.

Egli, nelle prime fotografie

in cui compare, di tre quarti, a volto scoperto e con la scritta Polizia sulla schiena, si trova quasi di fronte ai due operatori che stanno trascinando il manifestante. Poi, si sposta leggermente di lato, alla loro sinistra , e rimane, lo sguardo fisso sull’arrestato, ad assistere al pestaggio in corso

Infine, si mette in movimento come attestano le residue fotografie

 

Di particolare rilievo appare l’ ultima foto: se si guarda l’ombra per terra, si vede chiaramente che l’agente ha in mano un oggetto allungato (molto meno lungo, peraltro, di quello tenuto in mano dal carabiniere rinviato a giudizio, che è il soggetto che si trova a fianco a lui), che non può che essere lo sfollagente che compare anche nelle foto precedenti .

Tale particolare trova conferma anche nella foto successiva

, che riprende solo il piede e il casco dell’agente ma che segnala la presenza dello sfollagente, anche in questo caso proiettato dall’ombra sul terreno.

Il video acquisito elimina ogni dubbio e consente di circoscrivere con esattezza la condotta tenuta dall’agente nei frangenti ripresi dal fotografo.

In particolare, al secondo 14

 (che focalizza la condotta tenuta dal poliziotto, isolandola con un cerchio blu) si vede chiaramente il soggetto in questione chinarsi e con la mano destra, che tiene lo sfollagente, infliggere un colpo sulla persona che si trova per terra davanti a lui. Immediatamente dopo, egli si sposta sulla sua sinistra e si allontana di qualche metro dal luogo dove si trova, coricato, il manifestante. Questo particolare è reso ancor più chiaro dalla visione dello stesso video con zoom e rallentato

in cui al secondo 28 si può apprezzare la stessa scena.

E’ evidente come, non solo, il poliziotto abbia assistito a quasi tutta la scena senza intervenire (e per ciò solo dovrebbe rispondere del reato di lesioni, per l’omesso intervento, e di omessa denuncia) ma che abbia a sua volta dato un contributo materiale diretto al pestaggio, colpendo il manifestante, seppur solo una volta, con lo sfollagente.

Quale è stato il risultato di questo lavoro?

La memoria è stata assegnata al P.M. che aveva già chiesto le due archiviazioni precedenti, che mi ha risposto con un provvedimento molto laconico, di mezza pagina, in cui rilevava che non avevo “segnalato alcun elemento con carattere di novità che renda necessarie ulteriori indagini, ma sono solo formulati dubbi e osservazioni nonché proposti atti investigativi che sono già stati oggetto di approfondita valutazione, anche da parte dello stesso difensore, nel corso dei procedimenti archiviati”.

Tutto concluso dunque?

Non ancora. Ho inviato al Procuratore capo una nuova istanza, il cui senso era: come si fa a dire che non sono stati segnalati elementi di novità e che mi sto solo lamentando di “lacune ed imprecisioni” se nella mia memoria ho denunciato anche un nuovo reato, la manganellata inferta dal poliziotto, che non era stato preso in considerazione in precedenza?

La risposta del Procuratore quale è stata?

Anzitutto che le immagini sono sfocate. In secondo luogo, il mio deferimento al consiglio dell’ordine degli avvocati, con l’apertura di un procedimento disciplinare nei miei confronti.

Incedibile! Per quale ragione?

Secondo il Procuratore avrei utilizzato nella mia memoria dei termini inappropriati, al di fuori dell’ambito della normale dialettica processuale.

Cosa avevi sostenuto?

Niente di particolare. Non vorrei trasformare questa mia vicenda personale in un caso. Ciò che inquieta sono le archiviazioni disposte nel procedimento principale non il mio deferimento disciplinare. In ogni caso, il Procuratore stigmatizzava, in particolare,  alcune frasi contenute nella mia istanza che secondo me rientravano pienamente nel diritto di critica difensivo. In ogni caso qualche mese dopo mi è stato comunicato che il procedimento disciplinare nei miei confronti si è concluso con l’archiviazione, perché nella mia istanza non si sono ravvisate “espressioni offensive o sconvenienti”.

Sono interessanti le ultime osservazioni contenute nella denuncia disciplinare: dopo aver citato alcune frasi tratte dalla mia memoria la Procura scrive: “il predetto avvocato … si riferisce all’evidenza alla per lui inaccettabile linea investigativa e di valutazione dei fatti che sarebbe seguita da questa Procura nell’ambito delle manifestazioni violente di persone appartenenti alla componente illegale del cd. Movimento No-Tav. A tale tesi, secondo cui questa Procura avrebbe violato il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, il sottoscritto non intende in alcun modo replicare”.

Ma tu lamentavi la violazione di quel principio costituzionale?

No. Io criticavo le valutazioni fatte dal P.M e dal G.i.p in ordine alla responsabilità dei poliziotti e dei carabinieri coinvolti.

Le frasi che citavi riecheggiano da vicino il sottotitolo del video “Archiviato”. Pensi sia un caso?

Non lo so.

Ma il video è stato piuttosto osteggiato nella sua diffusione, mi pare. O no?

Sì. E’ stato presentato in molti posti in giro per l’Italia, anche in sedi istituzionali (Senato, Parlamento europeo, Regione Piemonte, Comune di Torino). Quando però l’associazione “A buon diritto”, che era una delle associazioni che patrocinavano il film, ha chiesto alla Biennale democrazia, che si svolge a Torino, di poterlo presentare e farlo seguire da un dibattito tra addetti ai lavori non ha ricevuto risposte. E, invece, se c’è una questione democratica nella nostra regione quella è rappresentata dal silenzio e dalla latitanza delle istituzioni rispetto alle richieste dei valsusini, che si accompagna alla militarizzazione del loro territorio.

Quando abbiamo chiesto alla Fondazione dell’avvocatura torinese di proiettare il video, in modo che gli avvocati potessero conoscerne il contenuto, ci è stato risposto che si sarebbe potuto fare, per rispetto delle forme democratiche, solo garantendo il contraddittorio con alcuni esponenti della magistratura. Noi non chiedevamo altro.

E come è finita?

E’ finita che i magistrati contattati non hanno ritenuto opportuno partecipare al dibattito e così la proiezione non si è fatta: il tutto però nel rispetto, ovviamente, come era negli auspici della Fondazione, delle forme della dialettica democratica!

Possiamo dire, allora, che il video un po’ di fastidio l’ha dato?

Almeno quello. In realtà, credo che negli intenti di chi lo ha realizzato vi fosse la speranza di una diffusione ben più ampia.

Sempre a proposito del video, ci sono stati degli aggiornamenti rispetto ai diversi procedimenti che venivano raccontati?

Sì, ancora una volta ci sono state delle archiviazioni per le querele presentate per i fatti di Chianocco del febbraio 2012, di cui il video “Archiviato” dava conto approfonditamente. La richiesta di archiviazione del P.M. si è basata in larga parte su alcune annotazioni della Digos in cui si sosteneva che i danneggiamenti e gli incendi alle auto degli attivisti No Tav sarebbero da attribuirsi “verosimilmente” a “facinorosi e teppisti comunque riconducibili al fronte estremista della protesta” (in altre parole ad altri manifestanti). Quanto all’irruzione al Bar La Rosa Blu, una delle sequenze più inquietanti contenute nel video “Archiviato” ,

la ricostruzione proposta dalla Polizia è stravagante. L’irruzione non sarebbe stata determinata dalla volontà di ricercare e identificare i manifestanti  ma dalla preoccupazione per “il potenziale pericolo in cui incorrevano gli eventuali avventori nonché i gestori dell’esercizio”, a loro volta allarmati non dalle modalità di ingresso dei poliziotti, entrati distruggendo con un calcio la porta in vetro, ma dalla presenza all’interno di “soggetti sconosciuti”. Anche in questo caso, ogni commento è superfluo.

Sulle lesioni provocate ad alcuni attivisti No Tav, tra cui quella di Titti, che aveva subito la frattura di una gamba e che nel video asseriva di non aver più fiducia nello Stato,

si dice che si trovavano nelle prime fila del corteo, tra i più esagitati, e poi si conclude sostenendo che tutti gli anni di lotta hanno probabilmente affievolito (si dice proprio così) nei manifestati la percezione del disvalore giuridico delle loro condotte, che andavano fatte cessare per ripristinare niente di meno che lo Stato di diritto.

Tutto molto sconfortante, direi.

Peraltro, niente di nuovo. Vedila sul lungo periodo. In questi ultimi decenni il controllo di legalità sull’operato delle forze dell’ordine nell’ambito del conflitto sociale è sempre stato assai blando. Brilla di luce propria il processo per i fatti della scuola Diaz, dove, nonostante le molte prescrizioni, nonostante la mancata identificazione dei mazzieri che hanno massacrato le persone che dormivano nella scuola (gli autori della famosa “macelleria messicana”), si è arrivati alla condanna di parte dei poliziotti che hanno svolto un ruolo apicale nelle operazioni di quella notte. Peraltro, è notizia di qualche mese fa, che alcuni tra loro sono stati reintegrati con posizioni di prestigio nella Polizia. Non se ne esce.

Bene, con questa nota di ottimismo possiamo chiudere l’intervista. Vuoi aggiungere ancora qualcosa?

Le decisioni in tema di archiviazione delle querele presentate dai manifestanti non sono un fatto isolato. Sarebbe interessante se qualche ricercatore si cimentasse nel ricostruire le complessive strategie giudiziarie messe in campo contro il movimento No Tav.  Il materiale su cui lavorare è ormai imponente

Non che sia un tema inesplorato. Ci siamo già interrogati a lungo sulle scelte di politica giudiziaria fatte in questi anni (la decisione di istituire un pool di magistrati inquirenti che si occupasse dei procedimenti a carico dei manifestanti, di realizzare una sorta di circuito ad alta velocità per l’avanzamento dei processi, la creazione di un clima di particolare allarme sociale attorno e nell’ambito dei principali dibattimenti celebrati ecc.).

A ciò si sono accompagnate scelte più propriamente giuridiche assai discutibili, come quelle relative alla qualificazione dei fatti-reato, all’uso particolare delle misure cautelari.

Le diverse sezioni del Tribunale di Torino sono spesso apparse in sintonia con le richieste dei PM. Non credi?

Non è mai bene generalizzare ma è un fatto che per ottenere qualche risultato giudiziario abbiamo dovuto attendere in più occasioni le decisioni della Corte di Cassazione che, basta leggere le sue sentenza in tema di reati legati al conflitto sociale, non è che proprio brilli per particolare sensibilità sul tema.

Ma oltre alle archiviazioni recenti di cui hai parlato, ci sono altre novità sul piano processuale?

Qualche recente novità c’è. Ad esempio, nell’ambito di altro procedimento attualmente in corso per tutt’altre vicende, abbiamo scoperto che già nel 2005 la Procura aveva aperto un procedimento per un reato di associazione con finalità di eversione e di terrorismo, il che le ha consentito di procedere ad intercettazioni ambientali e telefoniche verso molte persone che partecipavano alle manifestazioni No Tav.

Chissà quanti altri procedimenti simili sono stati aperti nel corso di questi anni. Di alcuni abbiamo anche avuto contezza a partire dal 2011 in poi. Lo spauracchio del terrorismo è stato agitato in più occasioni senza poi, tranne che in un caso, effettive ricadute processuali. Ciò che conta è però che, anche attraverso i “contenitori” associativi, si è probabilmente mantenuto un monitoraggio investigativo continuativo sul movimento.

Penso che tutto ciò sia in piena sintonia con la decisione della Procura di destinare personale giudiziario e risorse, anche economiche, importanti per contrastare un fenomeno collettivo come la lotta No Tav, derubricato a questione di ordine pubblico e di grave allarme sociale. Con risultati finali probabilmente inferiori alle attese ed agli auspici dei proponenti, nonostante la notevole mole di condanne emesse negli ultimi 6/7 anni dai Tribunali.


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