
In Valsusa è in arrivo un nuovo impianto elettrico. Lo chiamano “stazione”, “polo”, “infrastruttura strategica”. Ma dietro l’ennesima etichetta tecnica si nasconde una realtà ben nota: quella di un territorio continuamente esposto a nuovi interventi, sacrificato in nome del progresso, della modernizzazione, della transizione ecologica. Parole che cambiano, ma che finiscono sempre per descrivere lo stesso copione: opere imposte dall’alto, decise altrove, che si abbattono su comunità già segnate da decenni di servitù e violenze ambientali.
Infatti, su commissione di RFI, la società TERNA erigerà una maxi stazione elettrica (composta da quattro elettrodotti, in parte in linea aerea e in parte in cavo interrato) nel Comune di Avigliana. Il nuovo impianto di smistamento andrà a occupare un’area di circa 12.325 metri quadrati e servirà per fornire energia anche alla nuova fermata dei treni di Ferriera, lungo la linea ferroviaria Torino-Bardonecchia. Dal momento in cui inizierà la cantierizzazione, l’opera dovrebbe essere realizzata in un anno e mezzo e, per minimizzare l’impatto visivo, i committenti prevedono un vero e proprio progetto di mascheramento ambientale, composto da alberi e arbusti piantati tutto intorno all’area, in modo da formare una sorta di barriera naturale e normalizzare così la presenza di questa ennesima ferita sul territorio valsusino.
Dalle prime informazioni diffuse, il nuovo impianto sorgerà ad Avigliana per potenziare la rete elettrica. Nulla di sorprendente, se non fosse che, ancora una volta, la decisione sembra arrivare senza un vero confronto pubblico, senza un percorso trasparente, senza che la popolazione venga informata o messa nelle condizioni di comprendere impatti e conseguenze. Basti pensare che molti proprietari dei terreni che dovranno essere occupati temporaneamente per i cantieri e la servitù non ne erano a conoscenza fino a pochi giorni fa.
È una logica vecchia, quella che considera certi territori come spazi vuoti su cui costruire, sperimentare, accumulare impianti, senza preoccuparsi troppo delle persone che li abitano.
La Valle di Susa, in questo, è diventata un laboratorio perfetto della cosiddetta “zona di sacrificio”: un luogo in cui i costi ambientali, sociali e sanitari vengono concentrati, mentre i benefici scorrono altrove, verso i centri del potere economico e politico. In cambio restano promesse, cantieri, recinzioni e nuovi limiti imposti al diritto di vivere un territorio in equilibrio. È lo stesso schema che abbiamo visto ripetersi con la Torino-Lione, con gli elettrodotti, l’autostrada o le grandi aree logistiche: si taglia, si scava, si costruisce, e alla fine la valle si ritrova più povera, più inquinata e meno libera.
La giustificazione di turno è sempre la stessa: il “bisogno energetico”, l’“adeguamento delle reti”, la “sostenibilità”. Ma sostenibile per chi? Per chi decide, per chi appalta, per chi specula — non certo per chi, ogni giorno, deve convivere con infrastrutture che consumano spazio, rumore, salute e paesaggio. Parlare di transizione ecologica mentre si continua a trattare territori interi come piattaforme da sfruttare è una contraddizione che non si può più accettare.
Non c’è nulla di ecologico in una politica che cancella il diritto delle comunità di partecipare alle scelte. Non c’è nulla di giusto in una transizione che distribuisce i benefici a pochi e i costi a molti. E non c’è nulla di inevitabile in un modello che continua a imporre grandi opere senza un vero piano di riduzione dei consumi, di efficienza, di produzione diffusa e locale.
La Valsusa non ha bisogno di un’altra stazione elettrica calata dall’alto. Ha bisogno di rispetto, di trasparenza, di ascolto. Ha bisogno che qualcuno smetta di trattarla come un territorio “utile” solo quando serve a scaricare i pesi della modernità. Perché ogni volta che un nuovo impianto viene annunciato, ogni volta che un pezzo di terra viene recintato, ogni volta che un progetto nasce senza consenso, si rinnova un’antica ferita.
La Valsusa non è un sacrificio necessario. È un luogo vivo, abitato e resistente. E ogni volta che un nuovo cantiere si profila all’orizzonte, tocca ancora a chi la vive ricordare che qui non tutto è disponibile, che il territorio non è una risorsa da consumare, ma una Casa da difendere.



