post — 11 Dicembre 2025 at 18:23

Il Tav, i media e i voltagabbana

Nessun movimento di opposizione ha mai avuto in Italia la capacità di dare una continuità trentennale alle ragioni della propria lotta, e la recente e partecipata manifestazione dell’8 dicembre, ventennale dall’epico sgombero popolare nel 2005 del cantiere nella piana di Venaus, ne è la dimostrazione. Se duri trent’anni e prosegui, se ai nostri volti invecchiati si affiancano quelli dei più giovani – e molti sono nostri figli o nipoti – vuol dire che le ragioni della lotta non sono fuffa ma hanno radici motivate e ben salde.

Ma i media di queste ragioni non parlano. E il giorno dopo la manifestazione non trovi su La Stampa un’intervista a chi è partecipe del movimento no Tav ma a chi l’ha abbandonato, come Antonio Ferrentino. E allora alcuni chiarimenti vanno fatti. Cambiare opinione è legittimo, ci mancherebbe altro. Ma quando si passa da una parte all’altra della “barricata”, si dovrebbe avere la serietà di scegliere un dignitoso silenzio o di occuparsi d’altro. Diversamente, un’affermazione come «oggi non ha più senso manifestare contro l’Alta Velocità» diventa sale sulle ferite aperte nelle vite dei cittadini no Tav traditi – questo il termine più gentile utilizzato in proposito – dal Masaniello pentito che quando, prima di entrare in sintonia con Mario Virano (all’epoca Commissario di Governo per l’Alta Velocità Torino-Lyon), era tra i punti di riferimento del movimento no Tav, gridava al megafono, a Venaus nel 2005, che neanche con l’uso dei carri armati avrebbero messo un chiodo in Valle di Susa.

L’autore dell’intervista all’ex presidente della Comunità montana è il giornalista Andrea Bucci che, in un precedente articolo (La Stampa del 7 dicembre), aveva già collezionato lo scoop dei petardi tirati ad altezza d’uomo contro le forze dell’ordine. Ora, se la balistica non è un’opinione, di fronte a reti metalliche e intrecciate alte 4-5 metri e orlate di filo spinato alla “concertina” (lo stesso filo spinato elicoidale usato da Israele nel conflitto in Palestina), un petardo, che comunque non è pericoloso come un lacrimogeno, se viene tirato ad altezza d’uomo, può, al massimo, rimbalzare. Ma tant’è. Tutto serve per definire come violenza immotivata e gratuita ogni azione contro i cantieri (e sono già quattro!) che militarizzano aree della Valle di Susa. Nella stessa direzione vanno articoli come quello recente di Alberto Giulini, sul Corriere della Sera, che dedica più spazio alle dichiarazioni di sindacalisti autonomi della Polizia che alle ragioni dell’opposizione all’inesistente linea ad alta velocità tra Torino e Lyon. Sì, proprio inesistente perché la Francia – aspetto fondamentale taciuto da media al servizio dei propri editori più che di una una corretta informazione – non ha ancora elaborato alcun progetto definitivo e tanto meno stanziato risorse per la costruzione di una linea ad alta velocità in direzione Lyon, sì che l’alta velocità terminerebbe comunque all’uscita del tunnel di base a Saint Jean de Maurienne. Non importa: troveremo probabilmente un altro illuminato ministro ai trasporti – in realtà ce l’abbiamo già – che proporrà di accollarsi oltre ai costi del tunnel di base che sarebbero spettati ai francesi, anche i tre quarti dei costi della tratta in territorio francese!

Ma, tornando all’intervista, c’è un altro aspetto importante da rigettare. Non è assolutamente vero – come afferma Ferrentino («Non si è detto nulla sul raddoppio del traforo del Frejus, del progetto della seconda canna, e invece si vuol fermare la ferrovia») – che il movimento no Tav non si sia opposto al raddoppio del Frejus. La tesi, sostenuta in più occasioni da La Stampa, non può essere sostenuta anche dall’ex presidente della Comunità montana, visto che contro il raddoppio del tunnel abbiamo marciato insieme, a Bardonecchia, prima della sua giravolta.

Il movimento ha sempre individuato nel raddoppio del tunnel autostradale del Frejus un pericoloso tassello della trasformazione del territorio valsusino in un’area di transito penalizzante per chi in valle vive e per lavorare, dopo aver perso una dopo l’altra le numerose realtà produttive locali, deve fare il pendolare oppure emigrare in altre zone d’Italia o all’estero. Certo l’impegno è stato più ridotto, ma non è difficile capire il perché. Innanzi tutto l’autostrada – costruita con soldi pubblici e ovviamente poi privatizzata, nel rispetto della linea “oneri pubblici e guadagni privati” – è stata presentata come una superstrada non a pagamento e, dunque, imposta con l’inganno (mentre l’elevata tariffa, tra le più care d’Italia, ne causa uno scarso utilizzo da parte dei torinesi che prima la sostenevano e ora nei fine settimana, per risparmiare l’elevato pedaggio, intasano le due statali della Valle). In ogni caso, opporsi all’autostrada era impossibile dopo l’apertura del tunnel del Frejus nel 1980, anno in cui nessuno ne immaginava le conseguenze sul territorio valsusino. E, per evitare la contestazione nei confronti del raddoppio del tunnel autostradale, i lavori di scavo sono stati effettuati partendo dal lato francese. Per opporsi più duramente al raddoppio (anch’esso imposto con l’inganno, perché presentato come canna di sicurezza e non di transito per auto e Tir), sostenendo contemporaneamente due fronti di lotta, poi, ci sarebbe voluto Nembo Kid, anche perché l’Alta Valle è sempre stata più preoccupata a ricevere fondi dalla Regione per l’innevamento artificiale che a programmare uno sviluppo urbanistico meno speculativo del proprio territorio o curarsi dell’interesse generale della Valle.

Infine sono inaccettabili le dichiarazioni di Ferrentino su Askatasuna («Il movimento è ormai gestito dai centri sociali di Torino. Per Askatasuna l’opera è l’unico vero megafono per ottenere visibilità») che, tra l’altro, riducono i valsusini che manifestano contro la linea ad alta velocità a un insieme di imbecilli, teleguidati da strategie altrui piuttosto che consapevoli delle ragioni di una lotta che, senza alcune giravolte, avrebbe potuto e dovuto chiudersi già nel 2005. E sono particolarmente sgradevoli in quanto fatte da chi, a suo tempo, non ne disdegnava l’appoggio nei momenti più impegnativi dello scontro.

Askatusuna non ha certo bisogno di difensori d’ufficio ma è grave la campagna di criminalizzazione nei suoi confronti. Per alcuni è quasi un’ossessione. Come per l’ex procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo che, anche dalla pensione, insiste nei suoi assilli («La violenza è nel DNA di Askatasuna […] è una associazione criminale», La Stampa, 1 dicembre), reiterando la precedente affermazione secondo cui «dal punto di vista della criminalità il distretto giudiziario del Piemonte, tra mafie, antagonisti e No Tav “è un inferno”» (Ansa, 13 settembre 2024). Poco manca che il centro sociale venga accusato anche del recente terremoto di magnitudo 7,5 che ha colpito il Giappone e il movimento no Tav del conseguente rischio tsunami. Ma cosa dovrebbe fare un centro sociale? Limitarsi a organizzare tornei di ping pong e non essere partecipe delle lotte che manifestano il crescente disagio sociale delle periferie (come è considerata la Valle di Susa rispetto alla Città Metropolitana)? Concludo, e ammetto che queste righe sono scritte con molta rabbia, tipo L’avvelenata di Guccini. Stranamente – si fa per dire – gli operai dell’Ilva in lotta per la legittima difesa del posto di lavoro che hanno assediato la Prefettura di Genova, battuto i caschi sulle reti, gridato frasi non propriamente gentili verso i poliziotti, a cui hanno rilanciano i candelotti lacrimogeni, e, infine, abbattuto con una gigantesca pala meccanica parte delle reti metalliche a protezione della zona rossa, non vengono caricati. Evidentemente è più facile manganellare i giovani o giovanissimi studenti, come più volte è avvenuto (non solo ma) in particolare a Torino, che affrontare operai delle acciaierie che hanno ben altra esperienza e forza fisica.

Di Giovanni Vighetti da Volere La Luna