movimento, post — 13 Ottobre 2013 at 20:27

UNA STORIA DI INGIUSTIZIA A DANNO DEI NO TAV

nonublecblocSugli arresti dopo la marcia No Tav degli ultracinquantenni

Vogliamo ripercorre gli avvenimenti riguardanti la marcia degli ultracinquantenni in Clarea, avvenuta il 10 Agosto, per la quale siamo imputati per presunte minacce e violenze (i pm addirittura contestavano la tentata rapina) ad una giornalista.

Quella giornata, che tutti ricordiamo bene, ha visto una partecipazione ampia e una manifestazione davvero riuscita, senza incidenti di sorta ma con un piglio deciso. L’idea risultò azzeccata: portare i meno giovani, colonna portante del movimento no tav, al cantiere per una battitura delle reti a suon di martellate. Ci fu davvero una grande partecipazione e la battitura andò avanti per circa due ore, interrompendosi solo per dare voce agli interventi al megafono. Si riscattavano in qualche modo gli arresti di fine luglio e qualche manganellata di troppo, per non parlare delle molestie all’interno del cantiere ai danni di una ragazza fermata. Inoltre ancora una volta sfidavamo platealmente il dispositivo prefettizio della “zona rossa”. Il movimento no tav riaffermò che non riconosce zone rosse, e che le reti del cantiere, con tutto quello che c’è dentro, legali o illegali restano illegittime. Fu dimostrato ancora una volta che a combattere il cantiere non ci sono solo “i giovani venuti da fuori” e che il movimento non si divide in buoni e cattivi.

Insomma una vittoria totale su tutti i fronti, che smentiva tutte le costruzioni giornalistiche e repressive sul movimento.

Durante quella giornata il quotidiano La Repubblica manda allo sbaraglio una giovane giornalista, che si infiltra nel corteo come manifestante per fare foto durante i danneggiamenti. Quelle foto e quei filmati, però, non le pubblicherà mai sul giornale per portarle direttamente in procura. Evidentemente l’inviata è “servitor di due padroni”.

Comunque è maldestra e si fa notare, sia perché filma i singoli manifestanti sia perché saluta gli agenti della digos all’interno del cantiere. Beccata con le mani nella marmellata la malcapitata nega, dichiara di non essere una giornalista ma una manifestante, si trincera dietro sorrisi imbarazzati. Inoltre non sa riconoscere nessuno del movimento e anzi, in un tentativo ridicolo di dimostrarsi una no tav scambia Guido Fissore con Alberto Perino. Nonostante ciò nessuno la offende verbalmente o altrimenti, senz’altro fare che tenerla d’occhio. Di più, nel tragitto di ritorno del corteo sono diverse le persone che si avvicinano e le parlano, persuasi che la ragazza possa in fin dei conti essere una manifestante. Lei non risponde e ascolta, osserva, manda messaggi e parla col telefonino.

Giunti a Giaglione finalmente ammette di essere una giornalista, mostra il tesserino e ritorna a prendere la propria macchina, senza che più nessuno si curi di lei dal momento in cui si allontana.

Quanto vi abbiamo raccontato succedeva nel bel mezzo del corteo, con decine di persone che intervenivano, le parlavano o ascoltavano, tutte testimoni che non è successo nulla più che chiederle chi fosse e smentire le sue bugie. Ma di tutto questo lei ricorda solo tre persone, che a suo dire l’avrebbero circondata, chiedendole di consegnare il telefono e riaccompagnandola alla macchina scortandola fisicamente e qualcuno brandendo addirittura un bastone (molti dei partecipanti alla marcia avevano un bastone per affrontare la camminata).

Per questo, siamo stati arrestati con richiesta di custodia cautelare in carcere, sostituita con i domiciliari in virtù della legge Severino, e permaniamo con gravi restrizioni della libertà.

In tutto ciò rileviamo ancora una volta che il teorema Caselli di “non colpire il movimento ma singoli reati” è smentito nei fatti. A parte l’insussistenza dei reati, perché non si capisce in cosa codesta aspirante giornalista sia stata offesa, è evidente agli stessi pm che le misure cautelari sono spropositate ma ci vengono appioppate comunque, ben al di là delle condotte individuali, proprio in virtù “del contesto della lotta no tav” come ha chiosato senza alcuna esitazione il pm Rinaudo.

La nostra è certo una piccola vicendama vale forse la pena di provare a coglierne il senso complessivo.

Nel ragionamento di Rinaudo di fronte al Riesame sta il senso profondo dei nostri arresti e della gran parte delle inchieste che colpiscono il movimento. Per Rinaudo i No Tav sarebbero dei “paranoici” che vedono ormai all’esterno solo nemici. Sarebbero “usurpatori” delle prerogative di controllo del territorio che spettano allo Stato, perché si premurano di controllare chi devasta il territorio, chi si adopera perché questo disastro che si chiama TAV vada avanti.

Infine i No Tav sarebbero responsabili di una “pressione ambientale ben nota in altri contesti criminosi”. Cioè scimmiotterebbero un controllo mafioso del territorio e in questo senso i fatti vengono riletti dalla procura. Per questo agli inquisiti va vietato ogni contatto con gli altri no tav, applicando il massimo delle restrizioni. Nella teatrale arringa di Rinaudo non abbiamo sentito un solo riferimento alle nostre condotte. Semplicemente ha citato un paio di episodi di attrito con le forze dell’ordine o con altri giornalisti per inventare un contesto in cui i No Tav spadroneggiano indisturbati prefigurando un controllo del territorio criminale e criminogeno… Noi? Il mondo alla rovescia, insomma.

C’è solo ideologia dietro a queste sparate oppure qualche fondamento lo ritroviamo? Qualcosa ci suona in questo piagnisteo sullo Stato vuotato delle proprie prerogative. Uno Stato, ridotto a debole governance di processi che non controlla, scevro della minima parvenza di legittimità democratica, ostaggio di un accumulo di capitale finanziario che lo sovrasta e lo controlla, accusa noi di volerne usurpare le prerogative? Sicuramente siamo colpevoli di volerci provare. Provare a riprendere il controllo delle nostre vite, del nostro futuro, dei nostri territori.

Crediamo in definitiva che questa vicenda sia stata montata ad arte per essere catapultata in prima pagina, per evocare presunte intimidazioni giornalistiche che rimandano a scenari passati. Ma all’orizzonte noi non vediamo nessun caso Pecorelli. Si tratta, piuttosto, di un altro “caso pecorella”.

Non è un segreto che siano i tormentoni giornalistici a creare la predisposizione nell’opinione pubblica per le manovre repressive. Il battage mediatico c’è stato, e la copertura politica “di larghe intese” pure. Gli organi competenti sono quindi abbondantemente coperti per il loro operato.

Si sa che gli apparati repressivi in Italia si muovono su precise indicazioni politiche: ricordiamo per esempio cosa ha portato l’impunità garantita dalle alte cariche dello Stato a Genova nel 2001 e sotto questa luce rileggiamo l’intervento di Napolitano di questi giorni che suona come un sinistro imprimatur repressivo. Il tentativo, ampiamente preannunciato e già altre volte fallito, è ancora quello di spaccare il movimento tra “sinceri no tav” e “frange estremiste” che approfittano della lotta per altri scopi. A questo scopo servono caricature umane da sbattere sui giornali come tocca ormai a chiunque si spenda per questa lotta. Un crescendo isterico che non risparmia neppure chi semplicemente si esprima in favore del movimento, trasformando Erri De Luca in un “cattivo maestro” o Stefano Rodotà in un filobrigatista.

Non ci soffermiamo su quanto poco si sia parlato dei casi Lorenzetti o Azzolini, che da soli dovrebbero bastare a spazzare via un’intera classe politica. Facciamo solo presente che Pd e Pdl non sono nemmeno più in competizione (governano insieme), a dimostrare de facto che il concetto di governo è oggi assimilabile allo svolgimento di un compitino dettato dalla troika. Al servizio dei grandi capitali ovviamente, condividendo lo spazio del mercato, senza alcun imbarazzo, con imprese esplicitamente mafiose. Non lo diciamo noi, ma la cronaca.

Per chi si oppone si rispolverano vecchi codici o se ne congegnano di nuovi: dai reati associativi, alla “devastazione e saccheggio”, dai reati d’opinione alle molte leggi emergenziali che sono da cinquant’anni il sale della nostra italica democrazia. Ultimo arrivato, il divieto di fotografare o filmare le attività del cantiere pena l’accusa di “spionaggio”, introdotto con il ddl sul “femminicidio”.

Aggiungiamo una nota sullo strumento del “divieto di comunicazione”, applicato come misura cautelare ma che in verità è solo una pena afflittiva che mira a colpire non la condotta del supposto reo, ma la sua identità: colpisce i suoi affetti quanto le sue relazioni con i compagni di lotta, impedendogli di prendere parte in qualunque modo alla vita collettiva. Chi ha “tutte le restrizioni” deve scomparire e tacere, piegandosi al ricatto dell’isolamento in attesa di abiurare le proprie idee.

Il divieto di comunicazione è stato sostenuto come misura necessaria dal pm, secondo il quale è proprio con la comunicazione che il movimento no tav agisce, si coordina, prosegue nelle sue battaglie.

Un banale truismo, certo, che denuncia però, una volta di più, quanto sostenuto finora: il nostro movimento non è pericoloso soltanto per ciò che fa ma soprattutto per ciò che è.

Gli imputati del 10 agosto